La fine dell’Impero Ottomano

Alla fine dell’Ottocento l’Impero Ottomano, che per più di cinque secoli aveva dominato su un territorio vastissimo che si estendeva dalla Serbia fino allo Yemen, dall’Algeria all’Azerbaigian, comincia a entrare in profonda crisi. L’Impero russo è giunto a controllare la riva nord del mar Nero e punta, attraverso i Balcani, a raggiungere uno sbocco sul Mediterraneo, dove esercitano la loro influenza Francia e Inghilterra.

Nel corso del diciannovesimo secolo l’impero ottomano ha avviato un profondo processo di modernizzazione: lo stato si è centralizzato, è nata una costituzione e nel 1876 un Parlamento. Il rafforzamento dello stato ha però innescato reazioni contrarie, specie nei Balcani, dove si sono affermati movimenti locali che rivendicano l’indipendenza da Istanbul. Proprio l’appoggio della Russia alle sollevazioni degli slavi cristiani, all’interno dei possedimenti ottomani, fa scoppiare nel 1877 la guerra russo-turca. Nell’anno successivo la vittoria russa è sancita dal Trattato di pace di Santo Stefano: Serbia, Montenegro, Romania e Bulgaria, che fino a quel momento sono state sotto il dominio ottomano, diventano indipendenti.

In giugno al Congresso di Berlino, cercando di ridimensionare le ambizioni dell’impero zarista sull’area, le potenze europee definiscono i nuovi equilibri. L’impero ottomano perde buona parte dei territori balcanici, circa 200mila km.² di territorio abitato in maggioranza da popolazioni cristiane. La drastica riduzione demografica e territoriale ha gravi conseguenze sul piano economico e sociale; l’impero si trova così, per la prima volta, sbilanciato verso l’Asia e con una popolazione sempre più musulmana. Uno dei pilastri su cui si fonda l’impero, cioè la convivenza tra cristiani e musulmani, si sgretola definitivamente.

Nel frattempo, nel 1876 l’impero ottomano ha sospeso la Costituzione, inaugurando una fase di governo più autoritaria, senza però rinunciare a rafforzare e modernizzare lo stato. Per fare questo l’impero ha bisogno di finanziamenti esteri che lo porteranno a indebitarsi, dipendendo sempre più dalle grandi banche europee.

Agli inizi del ‘900, in Macedonia, ultimo avamposto ottomano in Europa, le élite musulmane temono che l’impero non riesca a difendere il vasto territorio dalle mira di Grecia, Serbia e Bulgaria. In questo contesto emerge una nuova generazione di giovani che si sono formati nelle moderne scuole imperiali, funzionari statali e ufficiali dell’esercito che danno vita a un movimento organizzato per difendere l’unità e integrità dell’impero: il comitato unione e progresso, meglio noto come i Giovani turchi.

Il loro centro è a Salonicco e tra loro c’è anche il giovane Mustafa Kemal, futuro fondatore della Repubblica di Turchia. Nel luglio 1908, il comitato passa all’azione, occupa città e villaggi macedoni e costringe il sultano a ristabilire la costituzione. Da lì ha inizio una nuova fase della storia ottomana che vede la graduale ascesa dei giovani turchi al potere imperiale.

Il crollo dell’impero Ottomano

1914, scoppia la prima guerra mondiale. Nei primi mesi di guerra l’impero ottomano rimane neutrale, per poi schierarsi a fianco degli imperi centrali. La Germania è l’unico paese rimasto a supportare gli Ottomani contro la minaccia dell’impero russo e il sultano ha da tempo affidato ai generali tedeschi la ristrutturazione del proprio esercito.

Il 28 ottobre 1914 navi turche bombardano il porto russo di Odessa: Gran Bretagna, Francia e Russia dichiarano ufficialmente guerra a Istanbul. La prima vera prova dell’esercito ottomano avviene nella primavera del 1915, quando truppe britanniche e australiane giungono in massa per conquistare i Dardanelli e liberare la via degli stretti. L’esercito ottomano però, grazie alle navi, alla strategia difensiva e ai consigli dei generali tedeschi, riesce a conseguire a Gallipoli una delle sue poche vittorie della grande guerra.

I turchi però devono cedere di fronte all’avanzata russa ad est, al confine con il Caucaso: preoccupato che la popolazione armena (cristiana) sostenga le armate russe, il governo ottomano decide la deportazione totale dei cristiani dall’Anatolia orientale. Alle deportazioni si associano massacri e violenze sui civili: è l’inizio dello sterminio di circa 1 milione di armeni e di altri cristiani, il primo genocidio dell’età contemporanea. La secolare convivenza tra cristiani e musulmani entra in crisi. A decretarla sono ragioni politiche, ovvero l’idea che le comunità cristiane non siano più fedeli all’impero.

A partire dal 1916, gli Ottomani cominciano a subire sconfitte su diversi fronti: gli alleati avanzano in Mesopotamia, nella penisola araba e in Palestina. Nel dicembre del ’17 viene liberata Gerusalemme e poco dopo anche Damasco. Il 31 ottobre 1918 viene firmato l’Armistizio di Mudros: i delegati ottomani accettano condizioni molto dure. L’impero è fortemente ridimensionato ma non è finito: i suoi leader politici fuggono all’estero grazie al supporto tedesco e il Paese è allo sbando mentre le truppe alleate entrano trionfanti a Istanbul.

La guerra greco-turca

Il 18 gennaio 1919 si apre a Parigi la Conferenza di pace, dove si comincia a decidere il destino ottomano. Mustafa Kemal, brillante generale distintosi nella battaglia di Gallipoli, organizza la resistenza contro la spartizione dell’impero, radunando uomini e mezzi nei distretti orientali dell’Anatolia. Nel 1920 il trattato di Sevrès decreta lo smembramento dell’impero: l’Anatolia è divisa tra Grecia, francesi e italiani, con la formazione di uno stato armeno e uno curdo a oriente. Il movimento di Mustafa Kemal reagisce al trattato di pace in nome dei diritti nazionali ottomani.

Cominciano due anni di guerra per la riconquista del territorio anatolico. I kemalisti all’inizio prendono il controllo dell’Anatolia orientale e centrale, poi nel corso del 1922 avviano la controffensiva per liberare l’Asia minore dall’occupazione greca. Ogni strato della popolazione, comprese le donne, è coinvolto in questo sanguinoso conflitto contro i greci. Dopo le prime difficoltà, l’esercito di Kemal prende il sopravvento. Nell’agosto 1922, i nazionalisti di Kemal lanciano la grande offensiva per riprendere Smirne: la città è messa a ferro e fuoco e la popolazione greca è costretta alla fuga, insieme all’esercito ellenico in rotta. Il 10 settembre 1922 l’esercito turco entra vittorioso a Smirne.

Ora Mustafa Kemal punta a riprendersi la Siria, porta del medio Oriente, sostenuto da molti funzionari e ufficiali arabi ancora fedeli all’impero. In difficoltà, Francia e Gran Bretagna, che avevano già pianificato di spartirsi le regioni arabe, preferiscono trattare con Kemal. Il 24 luglio 1923, con il trattato di pace di Losanna, si afferma l’esistenza di un nuovo Stato, su un territorio composto da tutta l’Anatolia e la Tracia. Sulle ceneri dell’impero ottomano è nata la Turchia .

Tramontata ogni prospettiva imperiale, Mustafa Kemal si dedica a realizzare uno stato nuovo, laico e repubblicano. La nuova Repubblica sarà costruita attorno all’identità turca e dovrà rompere radicalmente con l’integralismo del passato. Le minoranze, come i curdi, non vengono riconosciute. La religione musulmana non ha più il ruolo centrale di un tempo.

La nuova Turchia guarda verso Occidente: si sceglie l’adozione dell’alfabeto latino per la lingua turca, si procede alla riforma del diritto di famiglia, con l’abolizione dei matrimoni religiosi e della poligamia, e viene reso obbligatorio l’uso del cognome. Nel 1934 la grande assemblea nazionale assegna a Mustafa Kemal, con apposito decreto il cognome esclusivo di Ataturk, padre dei turchi.