In nome dell’arte: Palma Bucarelli, partigiana della cultura

 

L’oppressione contro cui hanno lottato i partigiani italiani fu politica e militare. Ma è bene sottolineare come il “dominio” non si limitò solo ai due campi sopra citati: il sistema culturale non ne è stato esente poiché vittima di censure, manipolazioni, razzie di capolavori, quando non di distruzione, quest’ultima attuata soprattutto dalle truppe tedesche.

Ma perché prendersela con l’arte? Si parla di motivazioni ideologiche, legate a una concezione di bellezza mostrata dalle opere contemporanee ben lontana dai valori estetici tradizionali, in cui la cosiddetta razza ariana si specchiava. Il Terzo Reich fece incetta di opere contemporanee – come per esempio quelle avanguardiste – etichettate come «arte degenerata», protagoniste oltretutto della tristemente famosa e omonima mostra che le presentò al pubblico con fare denigratorio. Alla gogna andarono, dunque, Chagall, Dix, Kandinsky, Mondrian, Van Gogh, Kirchner e tanti altri ancora. Erroneo, tuttavia, pensare che alla base vi fosse solo un’ideologia di regime: si conosceva molto bene il valore di mercato delle opere che venivano depredate. Se da un lato ne furono messe al rogo circa 5 mila, ricattando così i musei al fine di far lievitare i prezzi, dall’altro si pensò di conservarle. Emblematico il ritrovamento avvenuto non molti anni fa di un magazzino con circa 1500 opere tenute ben nascoste dal Reich per rivenderle.

Non sarebbe stata roba di poco conto privare le generazioni di tanta bellezza. Per questo motivo in penombra agì un’altra resistenza, silenziosa, intelligente e tutta al femminile: una sorta di partigiane della cultura che presero a cuore la “conditio” dell’arte, consapevoli delle brutture all’orizzonte che ne minavano l’esistenza e che una mancata azione avrebbe causato una grande falla culturale.

Sono state definite le Monuments Women– la controparte al femminile dei Monuments Men – loro che avevano come comune denominatore la salvaguardia delle opere. Palma Bucarelli, Fernanda Wittgens e Noemi Gabrielli: tre donne facenti parte dello stesso circuito, quello dell’arte – entro il quale operavano – che hanno sentito il dovere di preservarla, in quanto anche compito di chi conserva e tramanda la cultura visiva, con furbizia e charme. In tre differenti parti d’Italia ebbero luogo le loro tacite imprese: Noemi Gabrielli a Torino, Fernanda Wittgens a Milano e Palma Bucarelli a Roma. Se ad oggi possiamo fruire di determinate opere è solo grazie a loro, che hanno fatto in modo che non andassero perse per sempre anche a costo della propria vita.

Due parole vanno spese riguardo la figura di Fernanda Wittgens, la cui storia non fu subito facilmente ricostruibile. A lei infatti va riconosciuto un doppio impegno, in primo luogo dal punto di vista artistico e culturale: si premurò personalmente, al profilarsi del conflitto mondiale, di mettere sotto chiave in luoghi sicuri le opere della Pinacoteca di Brera (di cui era direttrice), del Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale Maggiore, per citarne alcuni, ed esattamente un mese dopo la Liberazione, si assunse l’impegno della ricostruzione degli edifici di Brera (26 sale su 34 vennero distrutte) con una aggiornata disposizione delle opere. In secondo luogo, ma non meno importante, fu degno di nota il suo impegno sociale e antifascista: le amicizie rilevanti e il prestigio personale ponevano Fernanda in una posizione privilegiata che le permise di aiutare familiari ed amici ebrei a espatriare. Venne tuttavia scoperta e detenuta presso il carcere di San Vittore, dove scontò gli anni di carcere rifiutandosi sino alla fine della sua detenzione di chiedere la grazia a Mussolini.

È scontato, tuttavia, dire che, tra le tre donne, colei che visse avvolta in un’aura splendente tra cultura e mondanità fu Palma Bucarelli. Non basterebbero i superlativi assoluti dei migliori aggettivi per descriverla, lei che rappresentò il “pezzo da novanta” del mondo dell’arte, il punto di rottura e il punto di inizio, un Duchamp al femminile che sovvertì l’altro lato dell’arte, quello del “solito” contenitore stanco del “solito” contenuto.

Essere donna in quel settore, per Palma Bucarelli, era un privilegio considerata la posizione “svantaggiata” che in quel momento le donne occupavano. Costoro allora non potevano neanche votare ed erano relegate alla mera mansione di moglie e madre, il più delle volte. E per elevarsi da una condizione voluta solo da una società realizzata da uomini, per uomini e con uomini al potere, e soprattutto per eccellere, l’unico imperativo era studiare. Prese in mano le redini della sua vita da donna ambiziosa e indipendente e ne costruì un capolavoro, come quelli con i quali avrà a che fare per tutta la vita.

Nel luglio del 1941, a soli vent’anni, divenne la prima direttrice donna della Galleria Nazionale di Arte Moderna (GNAM), a 14 mesi dall’inizio della guerra. Un periodo difficile: Palma era palesemente antifascista e antinazista, atteggiamento ampiamente dimostrato dopo aver declinato l’invito all’adunata organizzata da Mussolini. In quegli anni non si perse d’animo, soprattutto dinanzi a un’operazione di salvataggio rocambolesca che vide il trasferimento delle opere prima presso Palazzo Farnese di Caprarola nel 1941 e in seguito presso Castel Sant’Angelo nel 1943. La sua intelligenza e furbizia, miste all’algida bellezza e innata eleganza, furono il mix perfetto che permisero di portare a termine l’operazione completandola sotto il naso dei nemici o viaggiando il più delle volte di notte per eluderli, coadiuvata da pochi ma fidi aiutanti. Lei stessa definirà, poi, questo continuo spostarsi tra la capitale e la campagna romana come una follia. Non è un caso il soprannome “Palma e sangue freddo”, datole dall’amico Renato Mazzacurati.

Mix che, tuttavia, l’accompagnerà per il resto della sua vita lavorativa e non. Consapevole di queste qualità che la contraddistinguevano, riuscì a dosare il tutto emergendo con determinazione in un contesto declinato al maschile. La stessa determinazione la portò a compiere delle scelte drastiche quanto innovative legate alla GNAM, la sua “nuova casa” (non riusciva a scindere la vita lavorativa da quella privata tanto che si trasferì in un appartamento situato nell’ala destra del museo).

Scelte innovative, dunque, che videro la “sprovincializzazione” culturale di un’Italia ancora inesorabilmente legata all’arte tradizionale e conservatrice. La visione andava assolutamente rimodernata nel Dopoguerra, momento storico che aveva come fulcro il ritorno alla normalità e non al passato contraddistinto da un disperato bisogno di appigliarsi a retaggi ormai obsoleti. È l’inizio di una nuova era, con Palma al comando della GNAM che la vedrà al vertice sino al 1975. È l’inizio di un nuovo modo di fruire l’arte e di viverla. Così cambia la concezione del museo, non più contenitore ma punto d’incontro tra le varie arti, un centro didattico aperto a tutti e, soprattutto, cambia il contenuto che esso presenta.

Con la sua lungimiranza, un’altra dote posseduta dalla Bucarelli, e il “fiuto per gli affari”, riuscì infatti ad individuare artisti italiani che – guarda un po’ – sarebbero entrati a far parte dell’Olimpo del mondo dell’arte del ‘900: Alberto Burri con i suoi “sacchi”, Lucio Fontana con le sue “nature”, Emilio Vedova, Piero Manzoni con la sua “merda d’artista”, per citarne alcuni. Comune denominatore di questi artisti sarà la rottura con la figurazione, la distruzione del concetto di forma a favore del potenziamento del concetto in sé, del contenuto: è il momento dell’Arte Informale, in cui venne aspramente criticata poiché andava contro le regole del realismo socialista, motivo per cui tra l’altro fu minacciata più volte di essere destituita dall’incarico.

Ciò tuttavia non accadde e, appoggiata dall’amico di sempre Giulio Carlo Argan, andrà sempre spedita, aprendo le porte della sua galleria a Picasso, Mondrian, Pollock, Jean Fautrier, Kandinsky e tanti altri ancora. Anche questi casi furono oggetto di critiche, ancora una volta, poiché la si accusò di penalizzare con tali scelte gli artisti italiani. Palma riuscì ad avvicinare un pubblico numeroso all’arte contemporanea, anche il più diffidente e, altresì, a trasformare la GNAM da “terribile obitorio” – come l’aveva etichettata Peggy Gugghenaim agli inizi degli anni ’40 – in un museo degno di questo nome.

Tutto ciò grazie alla dedizione, alla determinazione e soprattutto alla devozione di questa donna, la vera e propria Regina di Quadri – utilizzando il titolo del libro scritto dalla critica e storica dell’arte Rachele Ferrario – quei quadri che lei ha voluto fortemente, in cui ha creduto, per cui si è battuta e che soprattutto ha salvato in modo tale da lasciare ai posteri un po’ di sana bellezza, memoria di sé e delle sue gesta. Ben 58 opere della sua collezione privata furono donate alla Galleria e distinte dalle altre da una piccola palma presente sul cartellino esplicativo. Nel nome dell’arte, che era la sua vita.

In copertina il ritratto di Palma Bucarelli (Alberto de Chirico)