Il coronavirus non ferma la guerra in Libia

Guerra, trincea, nemico da combattere. È questo il lessico usato per descrivere l’epidemia che sta colpendo l’intero pianeta da parte di tutti i media. Ma davvero la metafora bellica descrive l’emergenza sanitaria in corso? E cosa vuol dire un’epidemia in un paese in cui la guerra non è una espressione figurata ma è la realtà?

Pensiamo alla Libia, in cui l’estenuante e interminabile guerra civile prosegue anche con una pandemia globale in corso. Certo, il coronavirus sta sortendo risultati migliori della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio, ma il conflitto ha solo rallentato il passo, attestandosi su una guerra di posizione.

È trascorso un anno esatto dalla prima offensiva del generale Kalifa Haftar su Tripoli. Da allora secondo l’Unhcr «più di 300 civili sono rimasti uccisi e altre 150.000 persone sono state costrette alla fuga. Nonostante l’accordo provvisorio di tregua umanitaria, nell’arco dell’ultima settimana gli scontri si sono intensificati in modo significativo. Inoltre, il deteriorarsi della situazione ha messo a rischio le possibilità di decine di migliaia di sfollati di fare ritorno in condizioni sicure verso le proprie aree di origine».

È in questa situazione che si iniziano a registrare nel paese i primi casi e il primo decesso per infezione da covid-19. Qualche settimana fa sia il Governo di Accordo Nazionale (GNA) che l’Esercito nazionale libico si erano detti favorevoli ad accogliere la richiesta di cessate il fuoco delle Nazioni Unite per far fronte alla minaccia pandemica. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e poco dopo le forze di Haftar hanno lanciato missili su Tripoli – colpendo la città vecchia e i quartieri residenziali di Ain Zara e Al Suani – ai quali Al Sarraj ha risposto con l’operazione militare “Tempesta di pace”.

Nonostante si siano presi i primi provvedimenti per contrastare il virus, il flusso d’armi e di combattenti mercenari provenienti da altri paesi non sembra essersi arrestato. Per cui il cessate il fuoco e le misure intraprese per il contrasto al covid sembrano uno specchietto per le allodole e materia di propaganda.

Anche con la buona volontà delle due fazioni, anni di guerra civile rendono estremamente complicata la gestione di un’esplosione pandemica. Dal canto suo Al Sarraj ha stanziato un fondo 350 milioni di dollari volto a rafforzare il sistema sanitario e a promuovere le misure di distanziamento sociale. Anche Haftar ha intrapreso nella parte est del paese sotto il suo controllo misure di contenimento per evitare il propagarsi dell’infezione. Il virus però, lo sappiamo bene, non conosce confini e non fa sconti a nessuno, per cui entrambe le parti sanno che la sua diffusione, potrebbe avere gravi ricadute sociali e politiche.

Il sistema sanitario libico è stremato da anni di conflitto: mancano i presidi essenziali per il personale sanitario e per la popolazione, mancano acqua e luce, le strutture ospedaliere sono state bombardate e sono inadeguate e insufficienti. Molti, tra cui sfollati, rifugiati e richiedenti asilo, non hanno un alloggio adeguato e vivono in condizioni di sovraffollamento con un accesso limitato a servizi igienico-sanitari.

A mettere ulteriormente in ginocchio il paese, anche dal punto di vista economico, contribuisce il blocco delle esportazioni di petrolio. Se l’embargo delle armi è praticamente inesistente e continuano ad arrivare blindati, razzi, artiglieria pesante e droni da tutti parte di tutti gli sponsor delle due fazioni, quello del petrolio invece regge, facendo proseguire le ritorsioni di Haftar che continua a bloccare i più importanti terminali petroliferi della Cirenaica. Nei fatti praticamente il 70% della produzione nazionale di greggio è paralizzata. La Noc, la compagnia petrolifera di stato, ha stimato che le perdite sfiorano i quattro miliardi di dollari, stime destinate a peggiorare ulteriormente nel mese di aprile.

In tale situazione il diffondersi dell’infezione aggraverebbe la situazione di un paese già in macerie. Del resto, la prova più evidente ci arriva dal dato degli sbarchi nel nostro paese. Gli ultimi dati ci parlano di un calo di arrivi di circa l’80%. Secondo gli esperti, l’epidemia di coronavirus ha avuto effetto, scoraggiando le partenze da paesi come Tunisia, Algeria ma non dalla Libia. I migranti che fuggono dai centri di detenzione continuano a tentare di sbarcare in Europa, nonostante la guardia costiera libica nella maggior parte dei casi li riporti indietro. Ci provano, forse perché loro sanno davvero cosa sia la guerra.


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