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Il fascismo di ieri e di oggi, la necessità della Resistenza

«L’idea che dopotutto la Resistenza abbia avuto poco o nessun peso, in termini strettamente militari, è da relegare nell’armamentario dei luoghi comuni, apparentemente così veri e invece imprecisi e faziosi» (Alessandro Barbero). Le forze politiche antifasciste – comunisti, socialisti, democristiani, azionisti, liberali, demolaburisti – danno vita, già il 9 settembre 1943, al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che nei 20 mesi successivi sarà guida politica e militare della lotta di Liberazione. La Resistenza, definita da Norberto Bobbio e Claudio Pavone  una “guerra civile italiana”, si inserisce in una più generale guerra civile europea iniziata nel 1914 e terminata con i trattati di pace del 1945. Questa definizione è da legare ad un contesto e al clima politico generale che ne determinò le circostanze. Non una semplice guerra civile, ma un movimento storico di emancipazione sociale che trovò nei vari contesti le sue ricadute politiche.

Com’è noto, la risposta reazionaria di massa del nazifascismo è stato un tentativo, appoggiato dalle classi borghesi italiane, di contenere l’eventuale pericolo di una rivoluzione comunista di massa.  Il nazifascismo fu quindi favorito essenzialmente da borghesia, ricchi latifondisti, conservatori, e anche dalla Chiesa stessa. Temevano tutti la rivoluzione comunista di stampo sovietico: solo in questo modo si spiega il successo di movimenti così consistenti e pericolosi come il fascismo e il nazismo.

Secondo Antonio Gramsci il fascismo è la rivoluzione «passiva» del XX secolo: nei Quaderni del carcere descrive infatti la passività delle masse dinanzi al verbo dittatoriale, l’azzeramento della capacità critica di giudizio e la malattia morale della borghesia. La piccola e media borghesia urbana furono l’humus sociale che permise al fascismo di attecchire. Nei Quaderni si legge del fascismo come dell’«illegalità della violenza capitalistica» al potere, della lotta contro il capitale, della lotta di classe per l’affermazione del proletariato, di filosofia morale e della lotta senza quartiere contro ogni forma di sopraffazione.

Non si può parlare di antifascismo come di un ideale unico se non in termini di lotta di classe, poiché al suo interno vi sono state tre opposizioni: una comunista, una democratica (borghese, liberale), e una monarchica che più che altro tentò la strada della sopravvivenza opportunista. I democratici e i monarchici, fino a non molto tempo prima della Liberazione erano tra le fila fasciste, mentre i comunisti in opposizione guardavano ad Est come suo modello ideale e politico.

In tutto il mondo, d’altra parte, democrazie liberali e comunisti si univano occasionalmente contro il nazismo per poi dividersi subito dopo nuovamente (guerra fredda). La lotta di classe si impose quindi sulla scena europea per un trentennio, con tutte le articolazioni che questa prese nei diversi contesti nazionali, producendo fortissimi scontri civili.  Si ricordino i tentativi rivoluzionari in Germania, in Ungheria, così come la guerra civile spagnola, il biennio rosso in Italia, il Fronte Popolare in Francia, che non fecero altro che produrre un cedimento dei sistemi politici liberali tradizionali, radicalizzando il conflitto di classe: un rischio sociale e politico che contribuì a generare quel terreno culturale su cui fecero leva i diversi regimi reazionari.

Oggi la percezione negativa dell’antifascista è racchiusa nello stereotipo di stampo neofascista della “zecca rossa”, messo in bocca da alcuni politici su una determinata fetta di popolazione. È evidente come l’associazione sia tecnicamente errata: l’opposto di fascista non è “comunista”, bensì – semplicemente – antifascista.

La teoria comunista durante la Resistenza portava avanti idee molto radicali giacché riteneva il fascismo un pericolo in quanto variante fallimentare della democrazia liberale. Questo parallelismo fra fascisti e comunisti nasce puramente come strumento di propaganda della destra e risulta essere, nella sostanza, sbagliato; le figure che si identificano nell’antifascismo, come vediamo anche ai giorni nostri, possono essere molteplici e mosse da diverse prospettive. 

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Manifestazione cittadina a Palermo (2018): insegnanti, associazioni culturali, studenti, famiglie intere, anziani, studenti – foto di Alice Castiglione

La resistenza è ancora oggi la prova che gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale non sono “memoria comune”, sfatiamo questo mito. Il fascismo in Italia non è mai passato. Attacchi fisici e non da parte delle destre estreme in modi anche spudorati e che sfociano talvolta nell’omicidio, rendono necessaria un’attenzione sempre alta. La responsabilità della Resistenza ce la portiamo sulle spalle e si palesa con il dovere morale e civile di non fare avanzare le forze più reazionarie (da segnalare, sulle recenti aggressioni fasciste, una mappa interattiva realizzata dal collettivo bolognese “Infoantifa Ecn”, che registra e mappa le aggressioni dei gruppi neofascisti).

In questi anni abbiamo anche assistito all’internazionale dell’estrema destra in Polonia che ha visto più di 60 mila adesioni. Neonazisti e neofascisti in piazza ci ricordano che il fascismo non è morto. Il fascismo si è trasformato e ha preso diverse forme, fino a lasciare spazio alla teorizzazione dell’Ur-fascismo di Umberto Eco, anche detto “Fascismo Eterno”.

Un esempio “nostalgico” molto recente è riscontrabile nella legge di emergenza dell’Ungheria che consente al primo ministro Viktor Orbán di governare per decreto senza limiti di tempo, il che è incompatibile con le basi concettuali dell’UE. Qui la posizione di Carla Nespolo – Presidente nazionale ANPI, che dice, tra le altre cose: «A chi vaneggia sulla legittimità formale di tale decisione va ricordato che anche Mussolini e Hitler andarono al potere con una copertura di legittimità (…) Nel 75esimo della Liberazione esigiamo che l’UE espella l’indegno regime ungherese che ha tradito il patto antifascista da cui è nata l’idea di Europa».

Uno dei motivi per cui l’idea fascista non è sepolta è riconducibile alla “reintegrazione di un cancro” in un corpo sano: la partecipazione dei fascisti nel sistema politico, e quindi nel tessuto sociale, non ha permesso un’epurazione reale. Da Il perdono degli indegni: il 25 Aprile 1945 e l’amnistia Togliatti: «Calamandrei che, nel contestare il contenuto e lo scopo dell’amnistia, dichiarò che “era venuto meno lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla rivoluzione” (Il Ponte 1947 – Restaurazione clandestina). Secondo Calamandrei, dunque, la lotta di Liberazione rappresenta una vera e propria rivoluzione e, in quanto tale, “il nuovo stato” nasceva ‘ab ovo’ con nuovi principi di legalità non riconosciuti. Sicché le azioni compiute dai partigiani vennero giudicate applicando il sistema normativo preesistente, e qualificate di volta in volta, secondo i canoni interpretativi del vecchio ordinamento: rapine, estorsioni, omicidi eccetera. Benché vittoriosa, dunque, l’azione rivoluzionaria posta in essere dai partigiani, e benché in parte ritenuta motivate da “eccezionale situazione”, rimase catalogata tra le condotte illecite così come qualificate dal preesistente ordinamento giuridico. In termini più espliciti gli storici concordano tutti nel ritenere che il passaggio dal regime fascista a quello democratico non provocò il rinnovamento che ci si aspettava (Pavone, La continuità dello Stato)».

Per comprendere il principio di funzionamento della Resistenza che ci porta oggi a celebrare il 25 Aprile, è bene osservare l’attacco di via Rasella. Il matematico Mario Fiorentini (attore e artista frequentatore di teatri, che conobbe Gassman prima di diventare partigiano) vedeva passare tutti i giorni alla stessa ora un plotone di tedeschi e insieme a Rosario Bentivegna propose di attaccarlo. Per attaccare devono passare da Salinari, dirigente del CLN che a sua volta deve confrontarsi con Giorgio Amendola del comando militare del PCI. La Resistenza è di fatto composta da estrazioni politiche molto diverse, ma organizzata dal PCI italiano attraverso questa catena che porta al CLN e quindi, a caduta, sui diversi gruppi dislocati sul territorio.

Una lettura necessaria riguardo questo tema è l’esperienza del partigiano Giovanni Pesce raccontata nel libro Senza Tregua: «la lotta dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica) condotta senza tregua dentro e contro il gigantesco apparato di morte nazifascista non si ha, non si può avere che una fredda cronologia di azioni armate, ciascuna in sé isolata, una successione di fulminei colpi di mano, un nudo elenco di combattenti solitari. E di caduti. L’aspetto terrificante della guerriglia urbana non stava solo all’incombente ferocia dei croceuncinati, e dei loro sgherri in camicia nera, ma anche nell’insidia logorante delle spie, dei delatori, dei provocatori; e quindi nel vuoto impietoso che l’uomo dei GAP era costretto a farsi attorno per difendere se stesso e l’organizzazione. Giovanni Pesce, figura leggendaria della guerra partigiana, ci dà in questo libro oltre all’incredibile resoconto delle sue azioni di gappista (che gli valsero la medaglia d’oro) anche le dimensioni psicologiche della sua grande avventura». 

Il CLN è in contatto diretto con il comando alleato, che chiede attacchi a tempesta perché i tedeschi hanno dichiarato Roma Città Aperta. Il rimando al film neorealista di Rossellini non è casuale: dichiarare una città aperta durante un conflitto equivale a dire che la città non è oggetto di attacchi pesanti (i tedeschi mandarono in congedo le truppe a Roma a riposarsi prima di tornare al fronte). È interessante sapere che la scena madre interpretata da Anna Magnani è riferita ad un fatto realmente accaduto e si riferisce alla morte di Teresa Gullace.

La storia dei GAP è raccontata dal professore Alessando Barbero. Lo storico afferma: «È bene distinguere la memoria dalla storia. La memoria è parziale, soggettiva, spesso intima perché derivata da ricordi personali o familiari. La storia, all’opposto, è il tentativo di superare le tante vicende singole, di inquadrarle in un contesto, di riconoscere anche la complessità e le mille sfaccettature del reale. In qualche modo, memorie e storia sono antitetiche. Io direi che in Italia abbiamo la prima ma non la seconda, e così accade che gli eventi del passato vengano usati come clave per sostenere le proprie tesi».  

Un aspetto poco noto nella storia del fascismo in Italia sono i rapporti con la mafia.  Proprio come gli Stati Uniti hanno intessuto rapporti con la mafia siciliana, tramite figure come Lucky Luciano, anche il fascismo ha assorbito la mafia nel suo sistema di potere.

Nel suo libro di memorie (Con la mafia ai ferri corti, 1932) Cesare Mori scrive a proposito di fascismo e mafia: «La lotta non doveva essere campagna di polizia in più o meno grande stile, ma insurrezione di coscienze, rivolta di spiriti, azione di popolo». Come afferma anche lo storico Salvatore Lupo, nel suo libro  L’utopia totalitaria del fascismo, per mobilitare le coscienze e stabilire un canale di comunicazione con la cultura delle masse siciliane, il prefetto di ferro non esitò ad utilizzare i codici della retorica sicilianista e a volgere i concetti ed i valori tradizionalmente “mafiosi” (omertà, onore, coraggio) in una direzione questa volta nazionale e fascista.

In un altro suo testo, Il fascismo, Salvatore Lupo dice inoltre che «con Mori, per l’unica volta nel Mezzogiorno, il regime ricercò un registro propagandistico elevato e nel contempo mostrò la sua faccia dura» senza quindi rinunciare a tentare di nazionalizzare le masse e fascistizzare gli spiriti mentre attaccava energicamente i suoi “nemici interni”. A ben vedere si tratta di un’operazione ancora attuale, se pensiamo al fenomeno e alla caratterizzazione dei moderni populismi che hanno preso potere e consensi in Europa, in America Latina e nel mondo: Bolsonaro, Trump, Salvini e Boris Johnson su tutti. 

Federico Finchelstein, professore di storia sia alla New School for Social Research che all’Eugene Lang College di New York nonché direttore del Janey Program in Latin American Studies presso l’NSSR, è uno dei massimi esperti di fascismo transnazionale e di populismo globale. Secondo Finchelstein non è un caso se sussistono forti elementi di contatto fra populismo e fascismo: «dopo la Seconda guerra mondiale, quel che è accaduto è che questi fascismi vengono riformulati in chiave democratica. Il risultato di questo processo è, appunto, il populismo, che altro non è che una forma autoritaria di democrazia che non è più fascismo, avendo abbandonato alcune caratteristiche fondamentali di questo, come, ad esempio, la violenza politica e il razzismo, ma che ne conserva delle altre».

Il populismo è definito da Finchelstein una «bastardizzazione della democrazia» poiché mantiene sempre un minimo di spazio democratico: «quando il populismo non mantiene le regole minime della democrazia non ci troviamo più di fronte ad un caso di populismo, ma ad un regime di tipo dittatoriale». Un populismo artificioso, anziché costruire una teoria politica, cerca semplicemente di uniformare la massa all’idea del leader di riferimento, aiutato anche da sistemi di comunicazione studiati ad hoc.

Ad oggi ci si aspetta che i tempi siano maturi per una presa di posizione diretta e chiara che sancisca l’effettiva distanza da talune posizioni evitando il semplice apoliticismo, evitando di strizzare l’occhio all’estrema destra, andando ben oltre la libertà d’espressione e comprendendo una retorica e riferimenti che sfiorano l’apologia. Questo populismo demagogico è anche diventato un fenomeno culturale che, in questo preciso momento storico, professandosi da “anti-sistema”, agisce in realtà in soccorso di questi movimenti xenofobi-reazionari a cui abbiamo visto alzare la testa in questi anni. E il fenomeno è stato osservato a livello globale da svariate testate con una particolare attenzione all’Italia.

«Chi basa la propria azione sulla mera fraseologia ampollosa, sulla frenesia parolaia, sull’entusiasmo romantico è solo un demagogo, non è un rivoluzionario. Sono necessari, per la rivoluzione, uomini dalla mente sobria, uomini che non facciano mancare il pane nelle panetterie, che facciano viaggiare i treni, che provvedano le officine di materie prime e trovino da scambiare i prodotti industriali coi prodotti agricoli, che assicurino l’integrità e la libertà personale dalle aggressioni dei malviventi, che facciano funzionare il complesso dei servizi sociali e non riducano alla disperazione e alla pazza strage internecina il popolo. L’entusiasmo verbale e la sfrenatezza fraseologica fanno ridere (o piangere) quando uno solo di questi problemi deve essere risolto anche in un villaggio di cento abitanti» scriveva Antonio Gramsci in Lo Stato e il socialismo.

Nel contesto in cui viviamo oggi, la Resistenza è prima di tutto culturale e di liberazione di spazi, fa affidamento sulla forza delle idee e sui diritti acquisiti con il tempo, su sudore e lotte sociali che mirano non all’uguaglianza, ma all’equità sociale. «L’insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto, non mutano anche questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide?» scriveva Platone nella sua opera Repubblica nel 390 e il 360 a.C.

Foto in copertina di Alice Castiglione


 

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