Emergenze come figurine: l’Italia non è più un «porto sicuro»

 
 

La Pasqua italiana del 2020 sarà ricordata per le mancate tavolate con i parenti, per le tristi passeggiate da un capo all’altro del corridoio di casa ma soprattutto per la chiusura nazionale (stavolta per davvero) dei porti ai rifugiati. Questi ultimi sono considerati ormai una categoria sociale come un’altra: disoccupati, precari, classe dirigente, esodati – ve li ricordate? – boomers, millennials e poi ci sono i rifugiati. Costoro rimangono “persone che viaggiano”, numeri che si spostano perché dopo un po’ gli hotel nel deserto libico stancano. Tutti quegli stupri e quelle torture dopo qualche mese diventano anche un po’ fastidiosi. Ma l’Italia ha deciso ormai da due settimane che “un posto vale l’altro” durante l’emergenza coronavirus e di dichiararsi con decreto un «porto non sicuro».

Per l’Italia, i rifugiati hanno certamente approdi più sicuri e meno esposti all’allarme sanitario dove trovare riparo. Per questo motivo, fra Venerdì Santo e la domenica di Pasqua, il richiamo di aiuto di un gommone con 65 rifugiati a bordo, andato in avaria in acque SAR maltesi, è stato ignorato da Malta, Libia, Portogallo, Germania e, appunto, Italia. Nessuno è intervenuto perché c’è l’allarme Covid-19 e per 72 ore il gommone è rimasto in mezzo al nulla di un Mediterraneo all’occorrenza senza bandiere. Tre rifugiati sono morti cercando di avvicinarsi a un mercantile di passaggio, altri quattro sono annegati scomparendo fra le onde, altri cinque sono morti per disidratazione e fame. Quando un peschereccio ha recuperato i 53 superstiti, sono stati tutti riportati in Libia e smistati in diversi lager nei pressi di Tripoli.

Sempre per lo stesso motivo – “chi ha la pandemia in casa può fregarsene” – da venerdì 17 aprile è stato allestito un “hotspot galleggiante” a largo di Palermo. Per l’occasione – più unica che rara – 146 persone sono state messe in isolamento, in mare, sulla nave traghetto Rubattino a fronte, però, di diverse strutture disponibili sulla terraferma. Si tratta dei migranti trasbordati dalla Alan Kurdi dell’ONG tedesca Sea-Eye, che li aveva salvati e ospitati per 20 interminabili giorni senza meta, e delle persone soccorse dall’Aita Mari che sono vive solo grazie alle segnalazioni di SOS da parte di Alarm Phone.

Un decreto può cancellare il diritto internazionale? È quello che è successo col decreto interministeriale del 7 aprile con cui l’Italia ha dichiarato i suoi porti «non sicuri», alzando le mani per tutti quei salvataggi operati in alto mare da navi non italiane (praticamente tutti). Il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministro dell’interno e il Ministro della salute, dispongono che «per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus Covid-19, i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety».

La contromisura nei confronti del retorico “problema di troppo” e di cui non abbiamo bisogno oltre al coronavirus viene considerata necessaria per consentire la «funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19» dal momento che «non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di luoghi sicuri». Per riassumere, medici e polizia sono già molto occupati e non possono dedicare altre risorse all’assistenza dei rifugiati. Tolto che diverse case di riposo (RSA) siano state lasciate a sé stesse durante questa emergenza, che sia stato compiuto un inefficiente controllo sui viaggiatori da Nord a Sud Italia a emergenza già conclamata, che diverse strutture di accoglienza siano già state “svuotate” dai Decreti Sicurezza, che ad oggi migliaia di medici di base siano non adeguatamente preparati a fronteggiare diagnosi in totale sicurezza, il decreto è coerente nel voler destinare le risorse all’emergenza nazionale.

I 149 naufraghi compromettono la funzionalità del servizio sanitario italiano? Il sistema definito più volte «tra i migliori al mondo» può risentire di qualche centinaio di persone? Non si comprende se quello dei migranti rimane un problema di “sicurezza pubblica”, o se si tratta di una precauzione sanitaria, o se – per assurdo – l’Italia si stia preoccupando della salute dei naufraghi piazzandoli in mare o, peggio, rispedendoli nelle carceri libiche. Quel che è certo è che sta avvenendo una lesione diretta del diritto alla salute del naufrago, per dirla senza fronzoli. L’Italia ignora le operazioni di salvataggio, nega un porto sicuro ma, contemporaneamente, «alle persone eventualmente soccorse, tra le quali non può escludersi la presenza di casi di contagio di Covid-19 – si dice nel decreto – deve essere assicurata l’assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento delle necessità primarie e l’accesso a servizi fondamentali sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico».

Il diritto alla salute del rifugiato, un diritto fondamentale dell’individuo (art. 32 della Costituzione), trova tutela con la presenza di un porto sicuro di approdo. Il porto di cui si parla deve poter garantire la tutela di diritti fondamentali quali il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, la libertà personale e, in caso, anche il diritto di asilo. Esclusa la Libia che, come afferma l’ONU, non è un porto sicuro, siamo certi che fra l’approdo italiano e le condizioni a bordo delle navi – definibili giuridicamente «trattamenti inumani o degradanti» per la permanenza in mare in condizioni di affollamento e ridotta tutela sanitaria a bordo – non vi sia questo miraggio, questo “porto sicuro”?

Basta ripercorrere la vicenda della nave Open Arms dello scorso agosto, costretta a restare 19 giorni in mare con 161 persone a bordo, per trovare una risposta. Il decreto di sequestro preventivo d’urgenza emesso dal Tribunale di Agrigento – che di fatto permise lo sbarco dei migranti – parlava di un «evidente sovraffollamento della nave», di «diverse patologie a bordo a carico dei migranti soccorsi in mare» e di «pessime condizioni». Si legge nella ricostruzione dei fatti che «i migranti occupavano interamente il ponte della nave adagiati sul pavimento, avevano a disposizione due soli bagni alla turca» e di «uno stato di esasperazione in capo ai soggetti rimasti per diversi giorni a bordo […] che ha determinato situazioni sanitarie assai critiche sul piano fisico e/o psichico dei soggetti interessati».

Ignorare il salvataggio di vite in mare, negare ai naufraghi un luogo sicuro di approdo è un atto criminale ed è indirettamente un “permesso” alla tortura, siano essi condotti di nuovo alle coste di partenza o trattenuti in condizioni inumane sulle imbarcazioni, per l’appunto, di salvataggio e non di stabile permanenza.

In un altro caso, quello del procedimento contro Carola Rackete, viene definito “salvataggio” non solo la «presa a bordo dei naufraghi» ma anche «la conduzione fino al porto sicuro». La Corte di Cassazione allora, sulla stessa questione, si esprimeva così sulla nave che ospita i naufraghi recuperati: «non può essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse». Per questo motivo (e altri) il decreto “Italia porto non sicuro” dispone delle speciali navi di sorveglianza sanitaria che permettono il trasbordo dei migranti tratti in salvo, dribblando l’indifferenza in mare e ritardando, e di molto, l’intervento. Ma ciò che emerge più di tutto è che la misura di chiusura italiana non sembra adeguata alla situazione reale: se sappiamo che la Libia non è un porto sicuro e che le navi in mezzo al mare non costituiscono un salvataggio propriamente “portato a compimento” e che anzi sono fonte di inevitabile sofferenza dopo il superamento di un naturale limite organizzativo, appare evidente come l’Italia, fondatrice dell’Europa dei popoli, non possa voltare le spalle scambiando le emergenze come figurine.