Didattica online: le classi virtuali funzionano?

 

In Corrispondenza alla sospensione delle attività didattiche in presenza a seguito dell’emergenza epidemiologica, il personale docente assicura comunque le prestazioni didattiche nella modalità a distanza utilizzando strumenti informatici o tecnologici a disposizione. Così recita l’ art. 2, comma 3 del decreto legge 8 aprile 2020, n. 22. Solo di pochi giorni fa, dunque, l’ordine implicito ai docenti di continuare la loro mission seppure con un metodo differente: la didattica a distanza (DAD). Quindi se poco prima, secondo il DPCM del 4 Marzo 2020, i dirigenti scolastici si impegnavano ad attivare la DAD, adesso questa è un obbligo, volenti o nolenti, tecnofobici o no. In realtà la didattica a distanza andava attivata a seguito del benestare degli insegnanti; inutile dire che la possibilità di scelta ha dato vita a “fazioni” distinte secondo, probabilmente, il modo personale di vivere la didattica.

Partiamo dal presupposto che la DAD (o didattica online) esiste da tempo. Basti pensare, banalmente, alle cosiddette università telematiche che già nella loro definizione racchiudono il metodo, il solo su cui si basano e operano: quello dell’e-learning, ovvero l’apprendimento elettronico che sfrutta le potenzialità delle rete e il cui mezzo necessario per antonomasia è il computer (o tablet o qualsiasi apparecchio elettronico che consenta la connessione). Un professore o un tutor, chiaramente non visibili fisicamente ma tuttavia presenti durante tutto il percorso di apprendimento e formazione, erogano video lezioni o slide riguardo la materia in questione, il materiale didattico di supporto, aiutano nelle pianificazioni del lavoro.

Non solo le università telematiche ma anche scuole di ogni ordine e grado si sono accostate alla didattica online, facendo di essa quasi un’istituzione senza però abbandonare la didattica frontale svolta in aula: digitale e tradizionale si amalgamano, al fine di potenziare la qualità dell’insegnamento. Un esempio concreto sono i podcast, i wiki, i blog ai quali si può accedere anche da casa oppure – di massima utilità soprattutto in questo periodo di emergenza sanitaria – la classe virtuale creata dal docente tramite una piattaforma di e-learning, dove far iscrivere i propri studenti e dar vita a un “luogo altro” (oltre la classica aula) di conoscenza, di comunicazione, di scambio sincrono e asincrono.

Il decreto ministeriale che prevede l’obbligo di didattica a distanza sembra da un lato non aver colto impreparate molte scuole – dirigenti scolastici e docenti – già avvezzi all’adozione di “nuove pratiche”; dall’altro c’è chi non le ha mai messe in atto, probabilmente a causa dell’abitudine e degli schemi di sempre e poco propensi al digitale. Da qui la divisione in fazioni: se viene data la possibilità di scelta è ovvio che si agisce secondo i propri metodi e competenze, se diviene un “obbligo” la situazione cambia. Dinanzi alla disconoscenza, o anche alla poca praticità, molte istituzioni hanno provveduto a piani di formazione straordinaria last minute per favorire i docenti che presentano grosse lacune in ambito di didattica e tecnologie e aiutarli a colmarle alla bell’e meglio. In altri casi, invece, spinti dalla forza del dovere – o dal dovere in quanto “ordine” – i docenti hanno iniziato a sperimentare da autodidatti. Catapultato al di fuori delle ordinarie mura scolastiche, l’apprendimento avviene in un luogo non-luogo dove però, in barba alla sua connotazione, si troverà tutto ciò che è necessario, se non di più.

Ecco quindi le sopracitate classi virtuali, il punto di partenza della didattica online. Tramite le apposite app necessarie ai fini della DAD – come Google Classroom, la più utilizzata, e We School – il docente prepara le lezioni, progetta le esercitazioni, monitora online l’accesso degli studenti. Non si tratta, tuttavia, di un cambiamento solo per l’insegnante ma anche per il discente: è un modo alternativo di far scuola, con la possibilità di farlo nel terreno tecnomediale dove sono nati e cresciuti in quanto Digital Natives e dove non troveranno, possibilmente, nessuna difficoltà.

La buona riuscita di un lavoro va di pari passo con una buona organizzazione dello stesso. Ed è un’organizzazione produttiva ed efficiente che favorisce l’interscambio reciproco: l’interazione online sostituisce il vis a vis permettendo a volte collaborazioni “non previste” tra studenti che in classe non presentavano nessun legame, favorendo così un apprendimento cooperativo al fine dello stesso obiettivo, raggiunto grazie alla condivisione e allo scambio. Dunque la nascita di una comunità virtuale in cui tutti sono protagonisti e costruttori attivi della propria conoscenza.

In questo periodo, come abbiamo visto, la tecnologia e il digitale ci sono corsi in aiuto sotto vari aspetti. È chiaro che uno di questi sia il contesto scolastico. Il DPCM 8 marzo 2020 riguardo l’emergenza Covid-19, conosciuto come «io resto a casa», ha decretato la chiusura di quasi tutte le attività tra cui quelle delle scuole, in realtà le prime a chiudere i battenti con riapertura a data da destinarsi. Per tutta la durata della sospensione è prevista la possibilità di continuare a insegnare/apprendere attraverso modalità di didattica a distanza attivata dai dirigenti scolastici, o per meglio dire didattica online. In merito all’argomento abbiamo posto qualche domanda anche questa volta a Serena Giordano, docente di Pedagogia e Didattica e Antropologia delle Arti presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, e sostenitrice della didattica online.

Professoressa Giordano, lei ha continuato a far lezione secondo questo modus operandi. Come si trova? «Io mi trovo bene. Fare lezione dal vivo, di fronte a una platea di persone in carne e ossa, è un’altra cosa, certo. Ma credo che faccia parte del nostro mestiere non mostrarsi ostili ai cambiamenti cercando di sfruttarli al meglio».

L’alunno come reagisce alla didattica online? Può il concetto di casa come aula essere un’arma a doppio taglio potendo essere sede di distrazione e, contrariamente, di serenità? «Se devo essere onesta, la didattica a distanza presenta anche alcuni vantaggi. Vedo che gli studenti (forse perché protetti da un parziale anonimato) intervengono molto di più nel dibattito. Poi, le lezioni, essendo registrate, restano a disposizione di tutti, così si possono risentire in qualsiasi momento, una cosa importante anche per gli studenti stranieri che, talvolta, hanno qualche problema con la lingua. Infine, scrivendo tutti parecchio in chat siamo obbligati alla sintesi che è sempre una buona cosa. Quanto ad essere presi sul serio, credo che dipenda dalle qualità del docente. In aula o in rete non cambia».

Possono riscontrare qualche difficoltà secondo lei gli alunni DSA o aventi qualsivoglia disabilità, condizioni che prevedevano l’applicazione di una didattica individualizzata/personalizzata e/o l’insegnante di sostegno? «Per quanto riguarda i cosiddetti “disabili” credo che, ancora una volta, i docenti (anche quelli di sostegno) devono fare appello alla loro creatività, collaborando con i colleghi. Io, proprio ieri, ho invitato un’amica musicista non vedente a fare una lezione online agli studenti del biennio di Didattica. È andata benissimo e la mia amica ci ha spiegato parecchie cose che non sapevamo a proposito delle applicazioni che aiutano i non vedenti a navigare in rete e della legge (ignorata) che prevede che musei e altri luoghi pubblici si muniscano di una tecnologia minima che consenta a tutti di attingere alle informazioni. Molti disabili sono esclusi da sempre, al di là del Coronavirus».

Le classi a oggi, per fortuna, contano il più delle volte la presenza di bambini stranieri ma anche alunni le cui famiglie versano in una condizione economica critica, resa ancor più difficile dalla situazione di emergenza che stiamo affrontando. Dunque a volte nessun computer, nessun tablet, nessuna connessione internet medium il più delle volte necessari. C’è un modo per ovviare a questo problema, secondo lei? «Secondo l’ISTAT un terzo della popolazione non ha un computer. Credo che lo stato dovrebbe provvedere. Ma dubito che lo farà. I poveri sono comunque discriminati e il Coronavirus non fa che rendere questa discriminazione ancor più evidente, mettendola sotto gli occhi di tutti. La scuola, (al di là della buona volontà di alcuni eroici insegnati) oggi più che mai, sottolinea la disparità sociale. Pensate al concetto di orientamento a partire dalla scuola media. Tempo fa ho sentito alla radio un’intervista a una pedagogista che sosteneva con entusiasmo che l’orientamento andrebbe fatto già alla scuola primaria! Io lo trovo spaventoso. Che cosa può significare? Significa che chi è figlio di un muratore sarà orientato a fare la scuola edile e chi, invece, vive in una famiglia agiata sarà indirizzato verso prospettive più ampie e decisamente migliori».

Di contro, che tipo di difficoltà potrebbero incontrare i docenti, sul livello organizzativo, con problemi legati a una conoscenza medio bassa di queste nuove tecniche, con la “non collaborazione” degli alunni? Lei personalmente ha ravvisato qualche difficoltà a riguardo? «Se devo rispondere in base alla mia personale esperienza, non ho avuto alcuna difficoltà. Un paio di pomeriggi a studiare la piattaforma, qualche intoppo le prime volte e la collaborazione degli studenti hanno risolto tutto. Ci stiamo perfino divertendo. Sinceramente sono un pochino stufa delle lamentele di molto docenti su giornali e social. Alcuni dicono che si sentono offesi. Mi ricordano il professor Aristogitone. Lei non saprà chi è perché è giovane… era un personaggio di “Alto gradimento”, un programma che la mia generazione seguiva sempre, perché faceva ridere. Aristogitone era il prototipo del professore passato di cottura, lamentoso e pieno di sé. Per riassumere penso che ogni novità, se non si è ostili a priori, rappresenti comunque una opportunità di sperimentare. Credo che manterrò alcune abitudini che ho dovuto adottare con la didattica online anche dopo la fine della reclusione forzata, perché si sono rivelate molto utili».


 

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