Covid-19: non abbiamo imparato niente dalle altre epidemie

L’attuale pandemia da cui è stato investito il mondo nei primi mesi di questo funesto 2020 è un copione particolarmente preoccupante ma già visto. L’ennesimo fenomeno spillover – il “passaggio” di specie di un virus – e la sostanziale impreparazione a livello globale testimoniano il fallimento scientifico internazionale e persino qualcosa di più. Le altre importanti epidemie del secolo – dalla più recente Ebola alla Sars, dall’influenza aviaria alla “suina”, solo per citarne alcune – portano il segno di un colpevole contatto uomo-animale che ha ignorato del tutto gli avvertimenti di medici e scienziati. Non abbiamo imparato proprio niente?

Gli agenti patogeni più pericolosi per l’essere umano che si sono sviluppati nell’ultimo secolo hanno come protagonista il salto di specie: il virus si evolve, cambia ospite; un animale, un altro animale, l’uomo, altri uomini. Nel caso del virus Sars-Cov-2 (quello che porta alla malattia denominata “Covid-19”), un pipistrello sarebbe riuscito ad infettare un pangolino che a sua volta ha infettato un uomo. Il contesto è un altro fallimento della lezione scientifica: il wet market cinese di Huanan, nella provincia di Hubei – presunto luogo d’origine della pandemia – è, come tanti, un mercato dove si compra carne fresca, si contrabbandano animali vivi, senza che molte merci vengano sottoposte a controlli sanitari di qualche tipo.

Quale “lezione scientifica”? La Severe Acute Respiratory Syndrome (Sars) del 2002 ha seguito le stesse modalità e lo stesso tipo di contesto. Il contagio animale-uomo era avvenuto certamente in un mercato e la sua diffusione era stata inizialmente nascosta dalle autorità cinesi – come accaduto anche per il coronavirus che è di fatto una “variante” della Sars – ma per fortuna riuscì a colpire solo alcune migliaia di persone nel mondo. Il monito del National Center for Biotechnology Information (NCBI) fu allora preoccupante: già nel 2004, sulle valutazioni finali del fenomeno Sars, funzionari dell’OMS e molti altri noti esperti medici ritenevano «altamente probabile» che la Sars sarebbe tornata. L’analisi dell’istituto statunitense affermava: «è impossibile prevedere se una mutazione renderebbe la SARS più o meno pericolosa» e che l’aumento della trasmissibilità o letalità di questo tipo di infezione polmonare «susciterebbe ovviamente timori in tutto il mondo». Segnali, quelli della comunità scientifica, che hanno ribadito ai «leader di governo scettici» che «la salute è importante in ambito sociale, economico e politico, in maniera profonda».

Il fatto che pochi di noi abbiano vissuto l’esperienza della pandemia non giustifica l’aver ignorato le informazioni preziose che ci hanno consegnato altre grandi emergenze sanitarie. Lo stesso HIV, che dagli anni Ottanta ha contagiato oltre 75 milioni di persone, uccidendone più di 30 milioni, avrebbe dovuto mettere i governi in guardia sullo scoppio di grandi e pericolose epidemie. Tantissimi sistemi sanitari sono oggi impreparati ad affrontare un’emergenza globale. La Cina, forse perché ancora segnata dalla Sars, ha reagito certamente con più fermezza – piangendo ancora oggi altri morti, e tanti altri forse “nascosti” – ma il mondo fregiato di “umana onnipotenza”, oltre che mediamente attento nel seguire le indicazioni emergenziali medico-scientifiche, si è scoperto, senza esagerare, a rischio estinzione nell’eventualità di una pandemia molto aggressiva e letale.

La lezione più importante viene dall’Africa, e per diverse ragioni. L’Africa è ancora oggi in lotta con diversi focolai di Ebola ma, sia a livello continentale che a livello dei singoli Paesi, è ben più preparata nel settore della ricerca medica sulle infezioni emergenti rispetto alle epidemie del 2014, tanto da aver visto negli ultimi quattro anni la nascita di diversi centri scientifici di indubbia eccellenza. L’Unione Africana e, su tutti, la Nigeria e il Sudafrica, stanno dimostrando di aver investito risorse umane ed economiche nel settore Sanità, aumentando la propria competenza scientifica anche nel sequenziamento. Il genoma dell’Ebola, ad esempio, era stato sequenziato all’estero nel 2014, lasciando agli scienziati africani un ruolo marginale. Non esisteva nessuna struttura per l’analisi molecolare nell’Africa occidentale. Per il coronavirus invece le ricerche per la sequenza e le analisi sul “percorso” del virus sono state compiute tutte nel Continente e da professionisti, nello specifico, nigeriani e sudafricani. Ecco come in pochi anni l’innovazione sanitaria è riuscita a portare grandi progressi che però risultano ancora troppo “regionali” e poco diffusi. Va detto che in molti paesi africani oggi non esiste neanche un posto di terapia intensiva e che questo suscita l’allarme dell’OMS che teme una catastrofe umanitaria e milioni di morti.

La Repubblica Democratica del Congo ha recentemente vissuto l’illusione della fine dell’Ebola dopo oltre 50 giorni senza nuovi casi. Qui le vittime di questa epidemia sono state oltre 2 mila, ma quello congolese è stato un grande successo all’insegna del sapiente utilizzo di scarse risorse sanitarie indirizzate all’immunità di gregge. Nella RDC si è combattuto su diversi fronti: una sanguinosa guerra civile, un’epidemia di morbillo che ha causato migliaia di morti e l’Ebola. La distribuzione a basso costo dei vaccini è stata la chiave per immunizzare e di conseguenza bloccare la diffusione delle epidemie e le morti. Più in generale, la distribuzione a prezzi contenuti del vaccino – che sarà – contro il coronavirus, deve essere la priorità. Come afferma Ngozi Okonjo-Iweala, economista nigeriana e membro del Cda di Global Alliance for Vaccines and Immunization (GAVI), è fondamentale «incentivare la produzione, la scala e l’equa distribuzione globale di un vaccino anche per COVID-19» poiché «nessun paese è sicuro fino a quando ogni paese non è sicuro».

Un’altra lezione ce la impartiamo da soli, quando commettiamo errori di “posizionamento” nel globo terracqueo. Come nel caso dei due importanti medici francesi che hanno infelicemente invitato alla sperimentazione dei vaccini per il Covid-19 su soggetti africani. Il riferimento a un possibile “laboratorio Africa” è risuonato con una semplice, chiara definizione: razzismo. A parte aver gonfiato la popolarità del canale televisivo francese LCI (detentore di meno dell’1% dello share nazionale), le affermazioni di Jean-Paul Mira, capo dell’unità di terapia intensiva dell’ospedale “Cochin” di Parigi, e di Camille Locht, direttore della ricerca presso l’Istituto nazionale francese per la salute, hanno fatto sfoggio di quell’atteggiamento di superiorità e di conseguente disumanizzazione in cui a farne le spese sono sempre i popoli del Sud del mondo. «Non dovremmo fare questo studio in Africa dove non ci sono maschere, trattamenti o cure intensive, un po’ come è stato fatto per alcuni studi sull’AIDS, dove tra le prostitute proviamo cose, perché sappiamo che sono molto esposti e non si proteggono?» ha dichiarato Mira in diretta tv parlando di coronavirus e vaccini, seguito da Locht che accenna alla possibilità di «uno studio in Africa usando questo stesso approccio». Quella contro il razzismo è una lotta ancora lunga, basti ricordare l’episodio nostrano di pochezza ideologica nell’intervento del presidente della Regione Veneto Luca Zaia in cui diede la colpa del virus al fatto che i Cinesi «mangiano topi vivi».

Restando nell’ottica di superiorità, nel 2014 sono stati usati oltre 250 mila campioni di sangue per lo studio dell’Ebola. I ricercatori di mezzo mondo, e in particolare di Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno utilizzato i pazienti dell’Africa occidentale, spesso ancora in cura, per la creazione di nuovi vaccini e medicinali. Per motivi di «sicurezza nazionale» non è dato sapere i nomi dei sottoposti ai test medici, ma è chiaro come ci sia stata una totale mancanza di consenso informato per il trattamento. Un caso simile successe in Nigeria nel 1996 durante un’epidemia di meningite in cui quattro bambini furono cavie inconsapevoli per una cura, poi morti durante la “sperimentazione”. Laboratori viventi come questi continuano a essere invocati nello stupore generale in cui si chiede “perché gli africani hanno avuto così pochi contagi”, perpetuando la visione di una specie a sé, necessario oggetto di studio e sperimentazione. Quasi non ci si spiega perché l’Occidente e il Terzo Mondo no (una visione comunque in generale grossolana) in questa lotteria pandemica. Ma si tratta di una goccia nell’oceano dell’imperialismo medico, spesso e volentieri puramente politico e portato avanti con massicci aiuti sanitari, come nel caso della Cina, protagonista di un’opera di penetrazione economica sempre più profonda nel continente africano.

La sperimentazione su soggetti “sacrificabili” sembra essere stata regolare fino a pochi anni fa; i sistemi sanitari, in alcuni casi persino smantellati da nuove amministrazioni come nel caso statunitense, hanno avuto evidenti carenze in tutto il mondo, scoperchiando la fragilità delle terapie intensive dei paesi cosiddetti “più sviluppati”; virus sempre più resistenti potrebbero essere non più endemici, o puramente animali, e attaccare violentemente l’uomo, come accaduto molte volte negli ultimi decenni, senza che una stretta globale sulla salute vigilasse davvero sui contesti a rischio per il contatto uomo-animale; le epidemie costituiscono ancora oggi mezzi di penetrazione economica e colonialismo medico per il vantaggio di ricercatori che producono cure-denaro. Cosa abbiamo imparato dalle pandemie e dalle emergenze sanitarie che hanno coinvolto pericolosamente il globo o parti di esso? Niente o poco più di niente: la salute continua a non essere la priorità.

Copertina CC UNMEER