Ungheria: pieni poteri a Orbán

Governare attraverso l’uso esclusivo di decreti, sciogliere il Parlamento, cambiare o sospendere leggi in vigore, bloccare le elezioni, incarcerare fino a 5 anni chi diffonde “fake news” e fino a 8 anni chi viola la quarantena: sono questi i (pieni) poteri che il parlamento ungherese ha riconosciuto al primo ministro Viktor Orbán con il voto del 30 marzo. L’Ungheria, che fino a poco tempo fa era definita una “democrazia illiberale”, da ieri è ufficialmente una dittatura.

Il parlamento ha approvato questa misura, grazie alla larga maggioranza di cui godono Orbán e il suo partito Fidesz, per “combattere più efficacemente il coronavirus“. Al momento in Ungheria i numeri ammontano a 447 contagiati e 15 vittime, ma i dati reali potrebbero essere ben più alti. Sia il Partito Socialista che Jobbik (partito nazionalista di destra) parlano senza mezzi di termini di “dittatura” e di “colpo di stato”. La misura era stata d’altronde preannunciata e aveva sollevato critiche e preoccupazioni sia a Bruxelles sia a Strasburgo, con una dichiarazione ufficiale della segretaria generale del Consiglio d’Europa.

La decisione del parlamento ungherese è diventata un caso politico anche in Italia. Dure le parole del vicesegretario del PD Andrea Orlando: “Ciò che sta avvenendo in queste ore in Ungheria è inaccettabile. L’Europa deve far tornare indietro Orbán, un regime autoritario non può far parte dell’Unione”. Di diverso avviso il leader della Lega ed ex vice-premier Matteo Salvini, da tempo sostenitore e alleato del primo ministro ungherese: “Poteri speciali a Orbán per combattere con forza il virus? Saluto con rispetto la libera scelta del parlamento ungherese, eletto democraticamente dai cittadini. Buon lavoro all’amico Victor Orbán e buona fortuna a tutto il popolo di Ungheria in questi momenti difficili per tutti”.

A Matteo Salvini fa eco la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Mi corre l’obbligo di segnalare che in Italia quasi tutti i poteri sono stati dati al governo con un decreto legge che il governo ha deciso di interpretare in modo molto estensivo.” Dichiarazioni e paragoni che sembrano sorvolare su un dato: in Italia i decreti del Presidente del Consiglio passano dal Parlamento e possono essere emendati da entrambe le Camere, che a quanto ci risulta non sono ancora state chiuse.

“Orbán? Da cacciare a calci nel culo”: queste le parole usate da Marco Travaglio durante l’ultima puntata di Otto e mezzo su La7. “Il parlamento ha deciso democraticamente di cancellare la democrazia in Ungheria, esattamente come fece il parlamento italiano con le leggi speciali e fascistissime di Mussolini“.

Ben più istituzionali ma altrettanto severe le parole del commissario europeo alla giustizia Didier Reynders: “La Commissione sta valutando le misure di emergenza adottate dagli Stati membri in relazione ai diritti fondamentali”. L’Unione Europea è dunque pronta ad agire? Non è così sicuro, visti i precedenti.

Già nel 201o Orbán ottiene dal parlamento ungherese l’approvazione di alcune leggi illiberali che sottopongono a un controllo rigidissimo i media nazionali, limitando la libertà d’espressione. L’anno dopo viene approvata una riforma della costituzione altrettanto illiberale e nel 2012 l’Unione Europea annuncia per la prima volta la messa in atto di procedure di infrazione nei confronti dell’Ungheria. Nei fatti non cambia nulla e nel 2013 viene approvata un’altra riforma della costituzione, che limita i poteri dell’opposizione e della Corte costituzionale ed esclude dalla categoria di “famiglia” le coppie senza figli, non sposate o composte da omosessuali.

Nel 2015 inizia una stretta durissima sui migranti con l’avvio della costruzione di muri per bloccare i flussi e con l’approvazione nel 2017 e nel 2018 di leggi durissime contro clandestini, richiedenti asilo e aiuti umanitari. Nello stesso anno viene approvata una riforma del diritto del lavoro, ribattezzata dai critici “legge sulla schiavitù”.

Di fronte a tutto questo (e a un avvicinamento progressivo alla Russia in politica estera) l’Europa ha fatto due cose. Il 12 settembre 2018 il Parlamento Europeo ha votato l’attivazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona e della cosiddetta opzione nucleare, che prevede la cancellazione del diritto di voto di un paese membro in seno al Consiglio europeo (l’organo che stabilisce l’indirizzo politico dell’Unione) in caso di violazioni gravi dei principi dell’Unione, primo fra tutti lo stato di diritto (rule of law). Un’opzione che richiede però una procedura molto complessa e un voto a maggioranza qualificata da parte di quattro quinti degli Stati membri in seno al Consiglio.

Nei fatti dunque si è trattato di un monito, che non ha ancora avuto conseguenze concrete. In secondo luogo, il 20 marzo 2019 il Partito Popolare Europeo ha sospeso il partito di Orbán, riducendo il suo potere all’interno del gruppo politico. Sospensione tutt’ora in atto, a tempo indeterminato. Ciò nonostante, Orbán ha potuto continuare ad agire indisturbato all’interno dei confini del suo paese.

Come riporta questo articolo pubblicato su Internazionale a febbraio, l’ultimo rapporto annuale di Freedom House definisce l’Ungheria un paese solo “parzialmente libero”: caso unico e senza precedenti nell’Unione Europea. Il paradosso è duplice: da un lato Orbán e il suo partito hanno trasformato il sistema politico in senso autoritario, conservando però il rispetto formale della legge; dall’altro, in virtù delle “tolleranza” e della “ricerca del consenso”, le istituzioni europee gli hanno permesso di farlo. E cosa peggiore, hanno continuato a finanziare indirettamente il sistema politico attraverso i fondi comunitari.

Come sostiene Ferenc Laczo nell’articolo succitato, l’Unione europea avrebbe potuto e potrebbe ostacolare Orbán, “vincolando il sistema di sussidi al rispetto di certi standard in materia di libertà fondamentali, concorrenza politica e uso trasparente delle risorse governative” e redistribuendo una parte dei sussidi alle amministrazioni locali, ovvero “alle grandi città, governate da sindaci democratici e filoeuropei, ma anche alle località più piccole e in maggiore difficoltà, dove il controllo governativo è ai massimi livelli”.

D’altro canto i trattati non prevedono l’espulsione di uno stato membro da parte degli altri, nelle varie istituzioni intergovernative e comunitarie in cui sono rappresentati o di cui fanno parte. L’unica possibilità è l’adozione della cosiddetta opzione nucleare di cui abbiamo parlato poc’anzi. Siamo dunque di fronte a una gigantesca contraddizione politica, che si aggiunge alla crisi interna all’Eurogruppo e al Consiglio europeo intorno alle modalità di governo degli aiuti economici e finanziari necessari per fronteggiare la pandemia. Difficile prevedere se l’Unione Europea riuscirà a superare queste sue contraddizioni.


1 commento

I commenti sono chiusi