Quattro canti per cinque donne: bellezza, oppressione e trionfo (nei cieli)

A Palermo piazza Villena – o i Quattro Canti – è il crocevia principale e il “centro esatto” della città. È il punto di incontro fra le due grandi e antiche arterie palermitane (Maqueda e Càssaro) ed uno dei luoghi simbolo con cui il capoluogo siciliano è riconosciuto nel mondo. L’«ottagono del sole», costruito nel corso del XVII secolo, ospita diverse statue divise per ordine, ed è sull’ordine superiore che poggiano quattro donne, le sante protettrici palermitane (meno una): Oliva, Cristina, Ninfa e Agata, ciascuna di loro “legata” a un mandamento identificato dall’incrocio.

Rosalia, la santuzza, venne successivamente riconosciuta come l’unica patrona poiché – si narra – salvò Palermo dalla peste del 1624. Cinque donne stanno allora al centro di Palermo: quattro la abbracciano stendendo le braccia dai Quattro Canti sui diversi punti cardinali, una l’abbraccia tutta dall’alto di Monte Pellegrino, uno dei rilievi che circonda la città. Palermo è così “consegnata” alle cinque donne e alle loro leggende.

Della“santuzza” abbiamo già parlato in questo articolo, ripercorrendo la leggenda, la storia della sua vita risalente al XII secolo e la grande festa del 15 luglio a lei connessa. Santa Rosalia è venerata come Vergine in tutta la Sicilia ma in particolare nel capoluogo regionale Palermo e a Santo Stefano Quisquina.

Pare che la bella Rosalia Sinibaldi, di famiglia benestante, non volesse sposarsi con l’uomo che la scelse, e si volle dedicare alla vita ascetica. Il suo pellegrinaggio, per anni, toccherà diverse località – con leggende che daranno origine a diversi santuari siciliani – fino a quando verrà trovata morta da alcuni fedeli. Le sue ossa, portate per il centro di Palermo diversi secoli dopo, diverranno reliquie salvifiche e porteranno Rosalia al centro della fede cittadina, dall’anonimato da cui proveniva e nella quale era sostanzialmente rimasta per diversi secoli. È dunque la storia di una fuga e non di un martirio.

(sezione di) Santa Rosalia in gloria di Pietro Novelli

Anche nella storia di Santa Oliva possiamo trovare elementi caratteristici della fiabistica religiosa: dalla giovanissima età alla estrema bellezza della fanciulla con nobili origini, per giungere all’esilio e ai miracoli. La giovane Oliva, secondo alcune fonti nata nel 448 e appartenente ad una potente famiglia palermitana, visse durante la seconda metà del V secolo, periodo in cui i Vandali invadevano e conquistavano la Sicilia. Siamo agli ultimi scampoli dell’Impero Romano d’Occidente, quando Genserico, protagonista del Sacco di Roma, sta sconfiggendo per terra e per mare gli eserciti romani.

È in atto anche la persecuzione dei cristiani dalla quale Oliva non sfugge: non potendo essere martirizzata, date le nobili origini, fu spedita a Cartagine (nell’area dell’odierna Tunisi) in esilio. L’opera di conversione di Oliva nel nord Africa fece irritare il governatore di Cartagine che la rinchiuse in carcere, la torturò e infine la uccise. Essendo state distrutte le testimonianze scritte e sacre da parte degli invasori Vandali, è servito il racconto orale per tramandare le vicende della santa.

Oliva è rintracciabile nel “Martirologio Palermitanodel Mongitore datato 1742 in cui si ricorda: «A Tunisi il martirio di S. Oliva vergine e martire, cittadina palermitana e patrona principale, la quale, nata da nobile famiglia, ancora fanciulla, nella persecuzione vandalica per la fede di Cristo cacciata in esilio, a Tunisi attrasse molti alla fede cattolica; superati poi l’eculeo, le unghie di ferro e il fuoco, divinamente liberata dall’olio incandescente, troncato alla fine il capo, le fu data la corona del martirio, la cui anima, tutti ammirando, sotto forma di colomba volò al cielo l’anno 463».

Aveva dunque solo 15 anni quando è morta, dopo essere stata flagellata, scarnificata, ustionata e infine decapitata. Essendo avvenuto il martirio il 10 giugno, questo giorno è quello dedicato al suo festeggiamento in diverse località vicine a Palermo: Alcamo, Cefalù, Monte San Giuliano, Pettineo, Raffadali e Termini Imerese.

Santa Oliva, Cattedrale di Palermo

L’altra donna che “protegge” Palermo è Santa Cristina di Bolsena. Questa volta è una tragedia tutta familiare a fare da contorno alla storia della santa, ma la costante è sempre quella: l’oppressione nei confronti di qualcuno che riesce a trionfare nel «Regno dei Cieli». Cristina visse – secondo le prime testimonianze del culto rintracciabili nel VI secolo – durante l’impero di Diocleziano (284-305), periodo nel quale fu operata l’ultima durissima persecuzione contro i cristiani. Furono infatti privati di basilari diritti legali e molte pratiche legate al culto cristiano divennero possibili solo clandestinamente.

Il padre di Cristina, Urbano, un ufficiale romano, non sopportò la conversione della figlia – anche lei incredibilmente bella – che, ancora undicenne, fu rinchiusa e torturata in carcere. Dopo essere stata flagellata venne infine deciso di condannarla a morte: le venne legata una pietra al collo e gettata in un lago. Miracolosamente sopravvissuta – poiché la roccia rimase a galla – il padre, colpito dallo sconvolgente evento, morì improvvisamente lasciando al magistrato Dione il compito di riportare Cristina al culto pagano.

La fantasia medievale e i racconti a partire dal IX secolo completano una storia ricca di colpi di scena e, ovviamente, di tremenda violenza. Flagellata e gettata in una caldaia bollente piena di pece, resina e olio, da cui Cristina esce incolume, nuda e coi capelli tagliati viene trascinata per le strade e portata al tempio di Apollo.

Nel luogo sacro romano Cristina fece cadere l’idolo riducendolo in polvere. Muore anche Dione lasciando la scena al suo sostituito torturatore, il magistrato Giuliano, il quale continua l’ostinata opera di ritorno forzato sui propri passi da parte di Cristina. Gettata in una fornace da cui esce ancora una volta illesa, Giuliano la espose ai morsi dei serpenti, i quali invece di morderla, leccarono il sudore della martire. Furono infine gli arcieri a ucciderla trafiggendola mortalmente con due frecce.

Santa Cristina offre gli idoli d’oro di suo padre ai poveri Museo Nazionale di Varsavia

Anche le reliquie di Santa Cristina non sono da meno sul piano dell’avventura: furono ritrovate nel 1880 nelle catacombe al di sotto della basilica dei Santi Giorgio e Cristina – a Bolsena, nei pressi di Viterbo – una chiesa già consacrata da papa Gregorio VII nel 1077. Alcune reliquie della martire furono trafugate già nel 1098 da due pellegrini e lasciate a Sepino (provincia di Campobasso) «sulla via della Terrasanta».

A Sepino, dove ancora oggi viene festeggiata Cristina, sono conservate le reliquie costituite oggi solo da un braccio. Cosa c’entra allora Palermo? Intorno alla metà del XII secolo alcune reliquie vennero trasportate a Palermo, città che proclamò la martire sua patrona, fissando al 24 luglio e al 7 maggio i giorni in cui l’avrebbe festeggiata. Nella cappella delle sacre reliquie, nella navata meridionale della Cattedrale palermitana, è custodita l’urna di Santa Cristina, probabilmente la più antica protettrice di Palermo.

La storia della terza donna ospitata ai Quattro Canti palermitani, quella di Ninfa, racconta l’ennesimo episodio di persecuzione e fuga ed è anche la storia che si basa più di tutte su racconti fantasiosi e a tratti contraddittori. Vissuta a Palermo sotto l’impero di Costantino (306-337), pare fosse figlia di un prefetto, Aureliano, il quale non era incline ad accettare la conversione al cristianesimo. In un periodo importante per l’affermazione del cristianesimo nell’Impero Romano d’Occidente, Aureliano cercò di impedire il tradimento del culto romano facendo rinchiudere Ninfa.

Miracolosamente liberata, riuscì ad arrivare a Roma per visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Riuscì a esaudire il suo sogno pellegrino più grande e morì poco dopo nel 316, in un giorno che pare corrispondere al 10 novembre, giorno in cui si festeggia la sua ricorrenza. Oltre mille anni dopo, nel 1593, il cranio della santa fu trasferito a Palermo – anche questo presente nella cappella delle sacre reliquie all’interno della Cattedrale.

Santa Ninfa, Cattedrale di Palermo

Sant’Agata, una delle “donne immortali di Palermo”, è inevitabilmente legata alla città di Catania, della quale è patrona da tanti secoli. Ma fra tutte è quella più raccontata, più ricca di fonti e soprattutto più citata dai martirologi. È così importante nella liturgia cristiana da essere ricordata fra le sette vergini e martiri del canone della Messa. Il suo antichissimo culto è attestato dal ritrovamento di reperti riguardanti Agata a pochi decenni di distanza dalla sua morte, avvenuta il 5 febbraio del 251. Quale potente storia si cela dietro l’ultima delle cinque donne che abbracciano Palermo?

Secondo la Passio Sanctae Agathae, che risale alla seconda metà del V secolo, Agata apparteneva ad una ricca e nobile famiglia catanese. Il padre Rao e la madre Apolla, proprietari di case e terreni coltivati, essendo cristiani, educarono Agata secondo la loro religione in un mondo ancora “pagano” e alle prese con persecuzioni e pubbliche abiure. La sua biografia organizzata dai gesuiti – molti secoli dopo – rappresenta forse uno dei primi esempi di letteratura “agiografica”, ovvero relativa alla testimonianza e alla memoria tese alla venerazione di un santo.

Si racconta che Agata, catturata a Palermo dov’era fuggita con la famiglia, venne interrogata e torturata. Agata non fu un’apostata (rinnegatrice del proprio credo) e si professò orgogliosamente cristiana da generazioni, anche faccia a faccia col proconsole catanese Quinziano.  Con la sede papale vacante, le confische di beni ai cristiani e le persecuzioni diffuse, era un periodo estremamente drammatico per i cristiani. Al rifiuto della giovane – e bella, come sempre – Agata, il proconsole l’affidò a una custodia “rieducativa” in cui veniva utilizzato ogni stratagemma per tentarla e corrompere i suoi principi, dalle minacce ai ritrovi dionisiaci. Niente da fare, Agata non si lasciò trascinare.

Sant’Agata, Francesco Guarini

A quel punto fu incarcerata e torturata: Agata venne fustigata e sottoposta alla rimozione violenta dei seni con le pinze (uno degli eventi più iconici collegati alla memoria di Sant’Agata). Gli interrogatori riportati nel Passio parlano del processo imbastito contro di lei in cui Quinziano, alla vista di Agata vestita da schiava, le obiettò: «Se sei libera e nobile, perché ti comporti da schiava?». La santa, irremovibile com’era stata, rispose convintamente: «Perché la nobiltà suprema consiste nell’essere schiavi del Cristo».

Da fervente cristiana Agata fu gettata nella fornace ardente, martirizzata e da allora ricordata e venerata dai Catanesi. Divenne protettrice della città anche e soprattutto dopo aver salvato la città da due eruzioni dell’Etna, il vulcano che insiste sulla piana catanese. Ciò che storicamente resta interessante è la mole di documenti che attestano l’antichità del culto e la memoria di un martirio in nome della fede cristiana. Agata è la donna, fra le cinque, più rappresentata e raccontata, dall’arte agli scritti agiografici.

Cinque donne, quelle che abbracciano Palermo – e abbracciate a loro volta da Palermo –, che raccontano persecuzioni, violenze, soprusi perpetrati nei confronti di cristiani e donne nei secoli. Più di tutto, i racconti e le rappresentazioni iconografiche, mettono in luce una repressione combattuta praticamente da sempre e il bisogno da parte dei popoli (un po’ ovunque) di tenere alto il simbolo della lotta all’oppressore.

Palermo tiene alte, all’ordine superiore, sopra quello dedicato ai regnanti di Sicilia – non a caso – le sante protettrici, forse affermando la supremazia dei culti per delle grandi donne, lottatrici in un “mondo contro”, sul culto dei potenti che hanno governato la città. D’altronde nell’ordine delle priorità valoriali vive lo spirito più intimo di Palermo: prima viene la cura dell’anima, poi quella della terra.


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