L’ottobre nero in cui la peste segnò la Sicilia

Nei secoli le epidemie hanno sconvolto grandi regni, portato alla rovina interi imperi e decimato le forze di ogni leggendario esercito. Oggi il coronavirus sta mettendo a dura prova le borse di tutto il mondo, l’economia globale e costringendo milioni di persone nel mondo all’isolamento e al distanziamento sociale. Epidemie o pandemie nella storia – a seconda del mondo conosciuto che ne costituivano il teatro di diffusione – sono ricordate e documentate con l’inconfondibile tragicità di una lotta all’invisibile. Una lotta che, andando a ritroso, veniva fronteggiata con strumenti sempre più scarsi e inefficaci.

Il terrore delle popolazioni, come sappiamo bene, è sempre lo stesso, qualunque sia il tempo, la società e il portafoglio delle vittime. La Sicilia e il suo capoluogo, Palermo, sono stati testimoni di eventi pestilenziali che hanno spazzato via pezzi di umanità. Alcuni giunti da molto lontano, altri invece aspettavano solamente l’occasione di aggredire milioni di ignare prede.

Una delle pandemie più terrificanti della storia globale è senza dubbio quella di peste nera (chiamata anche bubbonica a seconda delle manifestazioni) avvenuta nel XIV secolo. Si calcola che questa epidemia di peste uccise quasi un sesto della popolazione mondiale (75 milioni su un totale di circa mezzo miliardo). La peste nera non risparmiò la Sicilia e una delle sue città più popolose, Palermo. Si sa che nel 1347 ci furono i primi morti sull’Isola e allora veniva chiamata morte nera, definita tale per la comparsa di macchie scure sulla pelle dei malati. Nel Medioevo il termine “peste” era utilizzato generalmente per quelle malattie caratterizzate da un’alta mortalità e che si diffondevano velocemente.

Ammalati di peste bubbonica (illustrazione del 1411 dalla Bibbia di Toggenburg)

Non era la prima volta che la «morte nera» si diffondeva in Europa: nel VI secolo, conosciuta come “peste giustinianea”, uccise – secondo alcune stime – oltre il 25 per cento della popolazione dell’Impero Romano d’Oriente e in tutto, nel corso di un secolo, forse oltre 100 milioni di persone. A Costantinopoli dovettero gettare i corpi ai limiti esterni della città, fino a formare montagne di cadaveri sugli scogli.

Come sappiamo che si trattò della stessa malattia? Alcuni recenti studi hanno provato che le due pandemie sono state contraddistinte dallo stesso agente patogeno. Lo stesso batterio, il temibile Yersinia pestis, trovò il modo dopo diversi secoli – oggi ancora un mistero e oggetto di ricerca – di tornare in forma evoluta e, ovviamente, più forte di prima. Anche se appartenente a un ceppo diverso, per secoli il batterio ha accumulato sufficienti mutazioni prima di ricomparire.

Attraverso la Via della Seta, Oriente e Occidente conobbero interminabili anni di morte: dal 1334 – data in cui si pensa sia nata la pandemia nel Nord della Cina – al 1404, la morte nera, trasmessa dai roditori all’uomo, viaggiò per mezzo mondo. Dalla Mongolia alla Cina, dal Medio Oriente all’Europa, guerrieri e mercanti portarono addosso e con le merci un’amara pestilenza che uccideva in pochi giorni. La peste divenne un’arma potentissima in guerra. In Crimea, nel 1346, un assedio dell’Orda D’Oro sulla colonia genovese di Caffa fu vincente grazie all’ausilio dei cadaveri degli appestati lanciati al di là delle mura della città con le catapulte.

È un cronista dell’epoca, Gabriele de Mussis, a raccontarci quel che fu una sorta di “guerra batteriologica”: «legarono i cadaveri su catapulte e li lanciarono all’interno della città, perché tutti morissero di quella peste insopportabile. I cadaveri lanciati si spargevano ovunque e i cristiani non avevano modo né di liberarsene né di fuggire». La catena commerciale genovese però, continuando a funzionare, riuscì a trasportare a destinazione spezie e stoffe, e di certo anche il morbo invisibile e letale.

Saranno delle navi infette appartenenti a una flotta genovese che giunge a Messina, dal Mar Nero, passando per Costantinopoli, a completare l’opera di diffusione della morte nera nel Vecchio Continente. Erano proprio i porti aperti a permettere la propagazione della peste nera sulle coste del Mediterraneo e, infine, in tutto il territorio continentale: Ragusa, Pisa, Genova, Venezia, Marsiglia furono altri focolai incontrollabili.

Nel mese di ottobre del 1347 a Messina sbarcò la peste che, con un tasso di letalità (percentuale di mortalità degli ammalati) di circa il 60 per cento, avrebbe svuotato di lì a poco tutta l’Europa e il Medio Oriente. All’indomani delle Guerre del Vespro una nuova è più spaventosa guerra era dunque giunta alle porte d’Europa.

«Accadde che, nell’ottobre dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1347, dei genovesi, su dodici galere, fuggendo la collera divina che si era abbattuta su di loro a causa della loro iniquità, accostarono al porto della città di Messina». A parlare è Michele di Piazza, un cronista dell’epoca che narra così l’arrivo della peste in Sicilia nella sua Historia Secula ab anno 1337 ad annum 1361. I genovesi avevano già visto quella malattia in Oriente e forse scappavano da essa. Gli stessi messinesi che tentano di scampare alla morte – ma già contagiati – contaminano le città vicine. «La gente di Messina dunque si disperse per l’intera isola di Sicilia» racconta Michele di Piazza. Fu un’ecatombe, il trionfo della morte.

Sappiamo che fino a 50 anni prima della peste abitavano a Palermo circa 40 mila persone e che – dati fiscali comparati alla mano – all’indomani della peste, la popolazione poteva essersi ridotta addirittura a 18 mila persone. Sfortunatamente non ci sono dati certi sulla mortalità che afflisse la capitale siciliana, ma attraverso alcuni elementi è possibile rintracciare la forza con la quale si abbatté la falce della morte nera.

Cosa sappiamo? Stando agli archivi notarili storici, è constatato fra il 1347 e il 1348 il concentrarsi di testamenti e di mortalità nell’ambito di ristrette categorie di laici e di religiosi. Stando anche al numero degli stessi notai che operavano in alcune grosse città siciliane, fra il 1346 e il 1350 si riscontra una riduzione del loro numero di circa il 26%. La mortalità della popolazione era comunque aggravata dallo stato nutrizionale delle classi più disagiate, afflitte in quegli anni da una pesante carestia (la stessa carestia portò molti contadini a emigrare in aree più popolose aumentando di fatto il contagio della peste).

Solo indirettamente possiamo intuire l’andamento del morbo a Palermo. In una raccolta di documenti presente nel Tabulario del monastero di San Martino delle Scale è presente una serie di sei testamenti redatti fra il febbraio e l’aprile del 1348, di cui due (a distanza di tempo) riferiti al decesso di due membri di una stessa famiglia: un elemento sospetto che può testimoniare come l’epidemia avesse raggiunto la massima virulenza in città.

Altro fatto significativo è la restituzione – documentata – di mutui forniti all’università di Palermo a vedove ed eredi vari: un’insolita mortalità nel corso dei primi mesi del 1348. Inoltre, ne Il Magnum Capibrevium dei feudi maggiori si è potuto rilevare che il 33% dei feudatari risulta in vita dopo il 1348, per il 32% mancano ulteriori notizie concernenti loro o i loro eredi aventi lo stesso cognome, e per il 25% non è neanche possibile stabilire la data di morte. Che fine hanno fatto così tanti “scomparsi nel nulla”? Tanti numeri, tanti dati che avvalorano la tragica portata della morte nera fra i palermitani.

Di questa «mortifera pestilenza» – ritornata con altre ondate nei decenni successivi – è giunta anche l’illustre testimonianza diretta di Giovanni Boccaccio, il quale fornisce un’agghiacciante descrizione nella prima giornata del Decamerone. A conferma dello spaventoso scenario fiorentino al quale il poeta assisteva nel 1348, scrive:

«erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia città di Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza […] quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, ed in miracolosa maniera, a dimostrare.

E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi ed alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela ed altre come uno uovo, ed alcuna più ed alcuna meno, le quali li volgari nominavan «gavoccioli». […] E come il gavocciolo primieramente era stato ed ancora era certissimo indizio di futura morte, e così erano queste a ciascuno a cui venivano. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né vertù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto».

Incisione ottocentesca di Luigi Sabatelli, raffigurante la peste del 1348 a Firenze

Ma se la peste nera uccideva in poco tempo, come fece a diffondersi così capillarmente e a uccidere così tante persone? Uno studio recente, coordinato dall’università di Oslo e quella di Ferrara ha dimostrato, tramite l’adozione di sofisticati modelli, che i topi, oltre che l’origine, non potevano essere il veicolo principale di diffusione. Solo un veicolo efficace, silenzioso e quasi invisibile poteva beffare le persone: i pidocchi. I parassiti umani infetti sui capelli, o sui vestiti, potevano raggiungere facilmente un consistente numero di persone in breve tempo. La trasmissione, così ampia, è cominciata dalle pulci del topo ed è stata banalmente portata avanti dall’uomo fino a compiere uno sterminio fra i più vasti della storia umana.


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