La peste del 1575: a Palermo il primo «lockdown» che fece scuola

Nei Diari di Niccolò Palmerino e Filippo Paruta si legge di alcune allarmanti vittime nel Capoluogo siciliano: «l’innamorato di detta donna e tutti di casa di una febbre con certi vozzi all’ancinagli, l’uno imbiscandola all’altro». Nel centro storico veniva trovata una donna morta, seguita in rapida successione da un uomo che aveva avuto con lei rapporti sessuali, e con lui la sua famiglia. Era tornata la peste. Palermo sarà così testimone di una spaventosa epidemiama anche di una gestione esemplare che non verrà dimenticata.

Alla fine della catastrofe del XIV secolo per mano della peste nera (1347-1348), in Italia, soprattutto nell’area settentrionale, diverse istituzioni si impegnarono per arginare la pericolosità di future epidemie. Già nel XV secolo, per esempio, nel ducato di Milano era in atto la pratica di controllare i punti di transito e l’uso di una sorta di “lasciapassare sanitario” per mercanti e viaggiatori a vario titolo. L’attenzione era concentrata nella protezione e nel controllo dei beni di consumo e delle merci. Si era imparato – a proprie spese, molto tempo prima – che la minaccia arrivava con le navi. La Salute era diventata ufficialmente una questione pubblica.

Siamo in un momento (graduale) di accelerazione della «modernità», con l’avanzare della politica e del controllo della società. Istituzioni ecclesiastiche e autorità di governo cominciano a lavorare sul territorio, talvolta in concorrenza. La scienza medica era ancora assai arretrata e le modalità operative per combattere un contagio non erano ben chiare a tutti. Nonostante le memorie e i tanti episodi in Europa e nel mondo, non si sapeva bene neppure cosa fosse la peste. Nei testi dell’epoca sono i diversi termini utilizzati a darcene prova: «peste», «febbre pestilenziale», «morbo contagioso» usati indiscriminatamente come sinonimi. In una tale confusione solo azioni ponderate e subito efficaci avrebbero salvato molte vite.

Qual era la situazione palermitana? La peste non arrivò dall’aria «corrotta», né dalla terra o dall’acqua. Non c’era segno di putredine colpevole del morbo; neanche gli influssi celesti o le congiunzioni astrali fornivano una spiegazione accettabile. Doveva essere stato un contatto diretto: la prima a morire a Palermo in modo “misterioso” fu una meretrice maltese il 9 giugno 1575.

La donna aveva «praticato» con il capitano della galeotta (un’imbarcazione più piccola della più conosciuta galea) che era sospettata di portare la peste dall’Oriente, ma più precisamente dalla cosiddetta «Barberia» (costa nordafricana). È intorno alla donna che si verificarono una serie di casi sospetti. A qualche settimana dal primo caso in cui morì la donna, la scia di morti risaliva a quell’origine. Non c’erano più dubbi.

Una figura di spicco ampiamente documentata in questo contesto è senza dubbio Giovanni Filippo Ingrassia (1512-1580) chiamato dal viceré don Carlo, duca di Terranova, che lo nominò Consultore Sanitario di Palermo negli anni della peste.Il “protomedico” riuscì ad ampliare le conoscenze in campo medico facendo davvero la differenza. Pare che la Sicilia sia stata presa ad esempio per capacità organizzativa e scientifica, non solo in Italia ma in Europa. Il testo Informatione del pestifero et contagioso morbo di Ingrassia, scritto in occasione della peste che colpì Palermo in quegli anni, divenne una sorta di guida all’emergenza sanitaria.

A Genova il governo chiese di far stampare diverse copie del volume; in Europa, si diffuse ancora di più grazie alla traduzione in latino. Il testo di Ingrassia rappresentò un protocollo efficace da seguire: la pratica del “barreggiamento” – la stretta osservanza di regole di prevenzione, anche con la minaccia di brutali sanzioni – il ricorso al fuoco per bruciare le robe infette ed espurgare gli indumenti, erano solo le basi minime per combattere il contagio.

Nel trattato c’era anche la gestione dell’oro necessario a finanziare l’azione politica, il sostegno ai poveri, categoria più esposta al contagio, e l’imposizione di tasse ai più ricchi. Le istruzioni di Ingrassia costituirono sostanzialmente un vademecum per la pubblica sanità come nella pratica politico-sociale.

Non fu lasciato nulla al caso. È un copione che conosciamo molto bene quello del richiamo alla prevenzione e all’igiene personale. Già dalla metà di giugno alle autorità cittadine era stata fatta istruzione di ripulire le strade, «facendo nettare tutte le puzzolentie et cagioni di generar fetore». Bisognava levare di mezzo gli animali morti, risanare le paludi e richiamare al proprio dovere ogni “mastro di mondezza” (gli operatori ecologici di allora) «che non attendono ad altro, che a riscuotersi il suo salario». Era inoltre importante che la propria abitazione rimanesse «limpida di qualsivoglia bruttezza, e di tener monde le sue latrine».

Quando, arrivati a metà luglio, i morti arrivarono a 150, Ingrassia continuò a combattere l’azione contagiosa del morbo nei modi e nei termini che oggi comprendiamo perfettamente. Fece in modo che «si prohibisse ogni conversatione, donde ne potesse nascere ampliation di contagio». Le restrizioni indirizzate all’allontanamento sociale colpirono «le schole publice, et i larghi, et lunghi visiti, che si solevano fare per li morti, et per gli infermi», oltre che «i venditori ad incanti, et i vaganti per la Città», come anche l’attività di prostituzione.

Oltre al barreggiamento delle abitazioni abitate o lasciate dai palermitani infetti, in seguito anche sequestrate e sorvegliate, si mise in atto la sistemazione dei lazzaretti. Un luogo molto importante che fu individuato da Ingrassia fu il Castello della Cuba: ampio, spazioso e arieggiato riuscì ad ospitare oltre mille persone. Assieme alla costituzione di nove diversi lazzaretti sparsi per la Città, l’altra straordinaria intuizione fu la separazione in edifici diversi dei malati dai convalescenti. Coloro che erano in via di guarigione non dovevano assolutamente andare a contatto con gli infetti, vecchi e nuovi, per non rischiare una possibile “peste recidiva”.

A dicembre, nel bel mezzo dell’epidemia, fu deciso una sorta di lockdown.Più precisamente, venne chiesto da Ingrassia di «inserrare» per venti giorni donne e fanciulli sino ai dieci anni, impedendo loro di uscire di casa, di frequentare i luoghi sacri «con soddisfattione di tutti gli huomini, massimamente dei gelosi, benché a malgrado delle dette donne». Chiusa buona parte della popolazione in casa, un problema urgente fu quello delle carceri. Anche questo problema fu gestito in modo eccellente: fu disposta una prigione per gli infetti dentro il bastione della Porta di Termini, e un’altra per i sospetti.

Nel marzo 1576, pur essendo giunti allo scemare dell’emergenza, si manifestarono otto casi di infezione e altri cinque di febbre nelle carceri. Una volta isolati, a questi prigionieri «veggendosi quel luogo molto brutto, sozzo, et puzzolente», furono destinate le stanze a pianterreno di Palazzo Aiutamicristo. dotate di «ogni comodità, e di pozzo, e di gran pila per lavarsi, et anco di latrina per nettarsi tutti i loro escrementi».

Alla fine, nell’aprile del 1576, si contarono circa 3100 morti, su una popolazione stimata di circa 80 mila anime: una mortalità di circa il 4%. Ingrassia considerò orgogliosamente che altrove nel Regno era andata molto peggio: in altre città si ebbero fra «le cinque et seimila, et più», «per non haver quelli tanto ordine, né tanta forza, quanta fin qui si è osservata in questa Città». In effetti i dati siciliani dimostrarono una maggiore capacità di resistenza al morbo. A Venezia morirono oltre 46 mila persone su un numero di abitanti di circa 180.000 abitanti (l’incidenza del 25%). La mortalità a Milano, dove morirono oltre 17 mila persone su una popolazione di circa 95 mila anime, si aggirava intorno al 18%.

Simone de Wobreck, Palermo liberata dalla peste, 1576, Museo diocesano di Palermo

La purificazione dei lazzaretti, con i grandi roghi che eliminarono i letti e ogni cosa nelle strutture per i malati, furono l’epilogo di un incubo contenuto grazie al genio di Ingrassia e all’ottima gestione palermitana dell’emergenza. Fu una grande festa fatta di fiamme, canti e ringraziamenti a qualsivoglia causa ultraterrena della salvezza palermitana. Al borgo del Capo – dove si contarono la maggior parte delle vittime cittadine – fu cantato finalmente il Te Deum Laudamus fra le lacrime «per allegrezza del tempo presente, et pietosa memoria del passato».


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