Come in guerra

Le trincee scavate dietro i cuscini, un respiro profondo prima di mirare e sparare col telecomando, il bollettino delle vittime trasmesso dalla propria pagina social, il senso di libertà durante la pausa dai bombardamenti di notizie quando è il momento di gettare la spazzatura. Nell’isolamento italiano c’è il “lavoro intelligente” disturbato dal volume esplosivo di una pubblicità e la preparazione ad affrontare il nemico col carrello diligentemente in fila.

All’orario prestabilito il richiamo popolare all’adunata e di corsa in riga al balcone per cantare l’inno di Mameli, mano sul cuore, petto in fuori, occhi che brillano. Gli eroi italiani della “quarantena” – altro termine sdoganato – sono esattamente come gli eroi nel Cinema: finzione.

«La guerra sarà lunga», «siamo in guerra», sono solo alcuni degli statement che si leggono e si ascoltano da giorni praticamente ovunque. Il coronavirus ha costretto il Governo italiano a rinchiudere, per quanto possibile, le persone in casa, sanzionandole severamente per ogni uscita “non necessaria”. In una democrazia queste azioni stringenti, che costituiscono non solo buon senso ma ordinaria amministrazione in una situazione estremamente preoccupante, rendono i cittadini automaticamente eroici. Ma quale «guerra»! Quali «eroi»!

Il sacrificio e l’isolamento in casa, lontani da negozi, bar e pub diventa eroico. Il week-end in casa – per alcuni già casalingo da tempo immemore – è un supplizio da sopportare, senza tutte quelle foto, senza tutte quelle serate speciali e indimenticabili fissate per sempre – e dimenticate nel telefono. Convivere col proprio compagno o restare in casa con la moglie erano sfide che non avevamo avuto l’occasione di affrontare davvero appieno. Tutto il tempo a doversi inventare giochi o a doversi reinventare per i bambini è perfino troppo. Bisogna aprire la finestra, prendere aria, uscire in balcone, partecipare ai flashmob liberatori, portare il cane fuori dieci volte al giorno.

Pare proprio che la viralità debba giocare un ruolo chiave per combattere il virus. L’interconnessione costante e ricchissima è ancora più centrale, più per coltivare insieme il desiderio di rivedersi fuori a festeggiare che per condividere le ennesime scenette e i “nuovi eroismi”.

E così alcune centinaia di persone possono essere – algoritmo alla mano – autori di un pensiero comune: quelli del #iorestoacasa diventano un decreto, gli altri del #distantimavicini riassumono il sentimento popolare e #milanononsiferma è il (fu) manifesto di una città che si “muove”, così tanto che scappa in massa nella corsa contro il tempo all’ultimo treno per il Meridione. Un frecciarossa sulle zone rosse: sembra il titolo di un film d’azione, e invece è un disastro amplificato a opera di “profughi eroi”.

In Italia non sono virali e non sono eroici le decine di migliaia di senzatetto che passeranno la quarantena in mezzo alla strada, italiani o stranieri non importa. Non sono virali tutti i detenuti, silenziosi o rumorosi, che sono balzati di colpo in cima agli impegni del Governo – ma temporaneamente – solo grazie alle fiamme in diverse carceri italiane e ai 12 morti esclusi dal bilancio “da prima pagina”. Sono invisibili i carcerati che affollano le strutture nazionali, mettendo a ferro e fuoco il “virus” dell’indifferenza, questo sì, in circolo da troppi anni.

D’altronde devono «marcire in carcere». Intanto difendiamo il cuore tricolore dagli sgambetti europei e dai pagliacci televisivi che hanno etichettato il coronavirus come «la scusa degli italiani per non andare a lavorare», e allo stesso tempo disprezziamo le famiglie dei detenuti da Milano a Roma, fino a Palermo, dal San Vittore a Rebibbia e al Pagliarelli, perché per loro e per i loro familiari reclusi – giunti quasi a conclusione della propria pena – il coronavirus è «la scusa per uscire, per evadere e per delinquere». Gli eroi della reclusione, in testa il Ministero della Giustizia, sono riusciti a “negativizzare” la rieducazione dei carcerati curandola con la detenzione fino al sovraffollamento.

Non sono abbastanza eroici tutti i lavoratori definiti «necessari» o quelli che minacciano lo sciopero perché le proprie aziende non possono (o non vogliono) garantire le misure di sicurezza per lavorare rispettando i nuovi parametri sanitari di prevenzione. Non sono virali tutti i professori e le maestre che stanno affrontando, in molti casi, una “digitalizzazione all’improvviso” di tutto il proprio lavoro di fronte a un vero e proprio surrealismo scolastico che ha messo in crisi un sistema di valutazione e di formazione ancorato a metodi tradizionali. In Italia non è eroico, e nemmeno patriottico, investire nell’Istruzione e – come si vedrà – nella Ricerca.

Si elogiano – e come non potremmo farlo? – dalla mattina alla sera tutti gli operatori impegnati per guidare e far funzionare la macchina del Servizio Sanitario Nazionale. I medici, gli infermieri, i funzionari di ogni grado impegnati nella gestione dell’emergenza e dei malati sono eroi in un “Sistema Sanità” a un passo dall’andare in tilt, sostenuto da un investimento nazionale straordinario e aiutato da (troppo) poche aziende produttrici di macchinari sanitari sommerse di ordini ben al di sopra delle proprie capacità produttive.

«Abbiamo uno dei migliori sistemi sanitari del mondo» è il mantra che viene ripetuto quasi a esorcizzare il baratro nel quale potrebbe cadere il Sud che, per fare un esempio, vede per la Calabria – sperando nella riconversione e nel recupero di strutture dismesse – l’attivazione possibile di qualche centinaio di postazioni (400 secondo le stime) per la terapia intensiva, a fronte di numeri spaventosi in Lombardia dove si stanno gestendo migliaia di ricoveri per Covid-19 (oltre 5 mila di cui oltre 600 in terapia intensiva).

Come in guerra, gli orrori restano sulle vittime e sui familiari delle vittime. In Italia, ad oggi, ci sono oltre mille famiglie che non possono piangere i propri cari defunti, e altre migliaia che non possono stare vicino ai malati sofferenti, se non con lettere e disegnini, messaggi di amore e speranza. Qualche interrogativo inquietante: come per la guerra, la memoria collettiva dimenticherà cosa significa davvero la paura adagiandosi su «eroismi di plastica»?

Se abbiamo compreso le minacce alla nostra vita sociale e umana, saremo ancora disposti a farci destabilizzare dallo “spauracchio”, che sia il povero, lo straniero, il cinese, il migrante o il rifugiato? E dopo che #andràtuttobene accetteremo ancora che si continui a rimandare l’attenzione per il nostro futuro e per le istituzioni che ci tengono letteralmente e intellettualmente in vita barattandola con qualche rapida riforma-slogan?


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