La BCE e il protagonista invisibile

Il fenomeno epidemiologico del Coronavirus (SARS-CoV-2) ha provocato forti squilibri di diversa natura, sia all’interno dei singoli Stati colpiti dalla relativa emergenza, sia nell’ambito delle istituzioni sovranazionali, in particolar modo quelle dell’Unione Europea (UE). Tra queste, la Banca Centrale Europea (BCE) ricopre un ruolo di prim’ordine nel dibattito politico e nell’opinione pubblica, in relazione alle critiche cui è stato sottoposto il suo operato dell’ultimo periodo.

Nello specifico, il continuo susseguirsi di prese di posizione e tempestive smentite che ne ha caratterizzato la recente azione ha condotto ad un inasprimento della diffidenza non solo nei confronti di tale istituzione monetaria, ma anche del progetto di integrazione europea generalmente inteso.

La crescente diffusione del sentimento euroscettico all’interno del territorio italiano – riassumibile nell’espressione Italexit – richiede, tuttavia, alcuni chiarimenti sul ruolo e sul funzionamento della BCE, al fine di comprenderne il reale potenziale quale strumento in grado di influenzare, con le sue politiche, la stabilità finanziaria e l’andamento dei mercato unico dell’UE.

La premessa fondamentale da cui muove l’analisi che segue riguarda la dicotomia che da sempre – in special modo negli ultimi anni – ha caratterizzato l’evoluzione della costruzione europea, ossia la contrapposizione tra sovranità statale e organizzazione sovranazionale. Sotto tale profilo, <<l’Unione  agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti>>, secondo quanto statuito dall’art. 5(2) del Trattato sull’Unione Europea (TUE). 

Appare evidente, dunque, come il novero dei poteri e delle competenze assegnate all’UE non derivi propriamente dalla dicotomia menzionata poc’anzi, quanto piuttosto dalla presenza – all’interno della stessa – di una terza compagine, un protagonista invisibile che regola e determina l’efficacia del funzionamento delle istituzioni europee, ossia la volontà politica degli Stati membri di promuovere forme di cooperazione al fine di incrementare la solidità del processo di integrazione, privilegiando il perseguimento di obiettivi comuni a discapito degli interessi particolaristici nazionali.

La BCE, sotto tale prospettiva, costituisce l’esempio emblematico di strumento istituzionale la cui efficacia non può che essere subordinata all’indirizzo che i componenti dei suoi organi decisionali adottano nell’ottica di garantire la piena attuazione della relativa missione, ossia mantenere la stabilità dei prezzi, salvaguardando il valore dell’euro, e sostenere “le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi” contenuti all’art. 3 del TUE in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” sancito dall’art. 2 del Protocollo (N. 4) sullo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea.

Con specifico riguardo proprio agli organi decisionali della BCE, la loro struttura consente di comprendere come gli Stati membri ricoprano, nelle rispettive rappresentanze, una posizione  nevralgica nell’attuazione delle differenti competenze: basti pensare al Consiglio direttivo, che annovera tra i suoi membri i governatori delle banche centrali nazionali dei 19 Paesi dell’area dell’euro, o al Comitato esecutivo, i cui 6 membri, compresi il Presidente e il Vice Presidente della BCE, sono tutti nominati dal Consiglio europeo – organo politico che riunisce i Capi di Stato o di Governo degli Stati membri dell’UE – che delibera a maggioranza qualificata.

In tale assetto, proprio la carica del Presidente dell’Eurotower assume una rilevanza significativa nell’ottica dell’integrazione europea, che necessita – o, quantomeno, necessiterebbe – di rimanere neutrale ed imparziale politicamente rispetto alle macchinazioni statali e alle influenze delle logiche nazionali.

Ricoprire determinate cariche in rappresentanza delle istituzioni dell’UE dovrebbe presupporre, secondo tale prospettiva, la capacità di guardare con lungimiranza e coraggio a quell’insieme di valori posti alla base del progetto europeo, che uniscono nella diversità, e la consapevolezza del potere che le stesse dichiarazioni rese in specifici e alti contesti esercitano nei confronti degli assetti politico-economici che caratterizzano il panorama globale.

A tal riguardo, l’esperienza della Grande Recessione, unita alla crisi dei debiti sovrani, e la recente e attuale emergenza epidemiologica del Coronavirus hanno posto a paragone due modelli comunicativi contrapposti che ben spiegano come la BCE sia uno strumento istituzionale i cui effetti risultano più o meno efficaci e creatori di convergenza e stabilità, in relazione all’uso che ne viene fatto.

Da un lato, abbiamo il modello del “whatever it takes” di Mario Draghi, ex Presidente dell’Eurotower; dall’altro vi è quello odierno di Christine Lagarde, attualmente alla guida dell’istituzione monetaria europea. Questi due approcci si contrappongono tra loro non solo con riguardo alla specifica natura, ma anche in relazione agli effetti che hanno prodotto all’interno dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) e, più in generale, nell’UE.

La politica monetaria portata avanti da Mario Draghi negli anni passati – pur avendo incontrato non poche reticenze da parte degli Stati storicamente pro austerity – si è concentrata sull’adozione di misure, come il Quantitative Easing (QE) o le Outright Monetary Transactions (OMT), volte ad operare nel mercato finanziario secondario, al fine di garantire la tenuta del sistema euro ed evitarne il collasso dovuto agli effetti negativi delle due crisi economiche che hanno caratterizzato l’ultimo decennio.

La stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), nella sentenza C-493/17 (Weiss and Others) dell’11 dicembre 2018, ha sancito la conformità del QE ai Trattati dell’UE, così esercitando il suo potere giurisdizionale e, velatamente, un indirizzo politico in favore di un’interpretazione ampia delle norme che disciplinano le competenze della BCE. Oltre a trasmettere una notevole fiducia ai mercati, il “whatever it takes” di Mario Draghi ha contribuito a lanciare un messaggio forte e fermo, garantendo la presenza costante e sostenitrice dell’Eurotower quale strumento efficace e solido per fronteggiare gli shock finanziari.

L’emergenza SARS-CoV-2 ha visto l’evolversi, invece, di un approccio strutturalmente opposto, caratterizzato dall’alternarsi di prese di posizione rigide e di chiusura ad azioni volte a smentirle e a placarne gli effetti demolitori. Nello specifico, a suscitare grande polemica nell’opinione pubblica italiana è stata l’affermazione della Presidente Lagarde, secondo la quale diminuire gli spread non rappresenta “la funzione né la missione della BCE. Ci sono altri strumenti e altri attori deputati a queste materie“.

Per quanto giuridicamente corretta possa essere tale affermazione, il suo effetto è stato quello di determinare il crollo delle borse, portando a supporre anche una volontarietà consapevole volta a travolgere l’economia italiana e a lanciare un chiaro segnale agli investitori di scommettere contro l’Italia e gli altri Paesi periferici.

Proprio per la gravità degli effetti negativi di questa scelta – che sembrerebbe avere i connotati politici di quella austerità che tanto ha influenzato le sorti degli Stati membri affetti dalle crisi dell’ultimo decennio – il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) da 750 miliardi di euro, previsto fra dichiarazioni discordanti, dovrà contrastare anche tali conseguenze negative, non potendo meramente consistere in affermazioni pro futuro rassicuranti; un piano di acquisti, questo, per sostenere l’economia europea in piena crisi sanitaria e che sarebbe dovuto essere la primaria risposta all’emergenza da parte dell’istituzione europea.

Dall’analisi effettuata risulta evidente come la contrapposizione tra sovranità statale e organizzazione sovranazionale, nella realtà dei fatti, non rappresenta il reale problema che attanaglia il processo di integrazione europea e contribuisce all’evoluzione di movimenti euroscettici.

Ciò che costituisce il vero limite che determina la disaffezione dei cittadini europei e il loro allontanamento dalle istituzione dell’UE, il vero protagonista invisibile e silenzioso che disarma le speranze di convergenza e coesione tra i popoli, altro non è che la mancata volontà degli Stati membri di prevedere forme di cooperazione per fronteggiare quelle sfide che, oramai, trascendono i confini nazionali; quegli stessi Stati membri che, forse troppo spesso, sfruttano la costruzione europea per il perseguimento di obiettivi ed ambizioni nazionalistiche; quegli stessi Stati membri che rappresentano la mente che governa quel braccio costituito dall’UE.