Coronavirus, l’Europa chiude le frontiere

Il Trattato di Schengen, firmato il 14 giugno 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi – sostanzialmente, dunque, da tutti gli Stati fondatori dell’UE, ad eccezion fatta per l’Italia, che ha aperto le frontiere solo nel 1997 – consente l’eliminazione progressiva dei controlli alle frontiere interne e mira ad introdurre la libera circolazione per tutti i cittadini degli Stati firmatari. 

Nel 1990 il Trattato è stato completato e affiancato dalla Convenzione di Schengen – entrata poi in vigore nel 1995 – che definisce le condizioni e le garanzie della libera circolazione.  Dal 1999, con il Trattato di Amsterdam, il Trattato di Schengen e la Convenzione sono stati pienamente integrati all’interno della legislazione comunitaria. 

All’Area Schengen, che costituisce certamente uno dei più avanzati livelli di integrazione europea, fanno capo 22 dei 27 Stati membri dell’UE, nonché l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia e la Svizzera che, pur non facendo parte dell’Unione, hanno aderito al Trattato e alle disposizioni in materia di libera circolazione. È proprio il Trattato di Schengen a prevedere che la libera circolazione possa essere sospesa in ipotesi di  emergenza, di minacce alla sicurezza nazionale, ovvero in caso di mancato o insufficiente funzionamento dei controlli alle frontiere esterne.

In seguito alla diffusione dei contagi causata dal nuovo Coronavirus (SARS-CoV-2), l’Unione Europea, in materia di libera circolazione di merci e persone, ha adottato una posizione chiara volta a contenere le conseguenze dannose dell’attuale pandemia. La scorsa settimana, infatti, i Governi degli Stati membri si erano impegnati per concordare una cooperazione futura al fine di rispondere, in maniera condivisa, alla pandemia da Covid-19. 

La diffusione del virus, tuttavia, ha richiesto tempestività nell’intervento delle Istituzioni europee; infatti, Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione europea, al termine della videoconferenza tra i leader del G7, ha annunciato la sospensione del Trattato di Schengen per un periodo – prorogabile – di trenta giorni, a partire dalle ore 12 del 17 marzo 2020, momento in cui l’Area Schengen, sostanzialmente, è stata blindata, sia per i cittadini che intendono uscire dal Continente, sia per coloro i quali tentino di accedervi. 

Tale sospensione, tuttavia, subisce una ragionevole deroga per il personale sanitario e i ricercatori, nonché per i cittadini europei che vogliano tornare presso i loro Stati di appartenenza.  La Von Der Leyen ha dichiarato: «Con i Governi europei abbiamo deciso una restrizione temporanea dei viaggi non essenziali nell’Unione. Lo facciamo per non far diffondere ulteriormente il virus dentro e fuori il Continente e per non avere potenziali ulteriori pazienti che pesino sul sistema sanitario UE». 

Prescindendo dall’austerità che, come uno “spettro che si aggira per l’Europa”, ha storicamente minacciato il processo di integrazione europea sotto il profilo dell’attuazione e del miglioramento delle politiche sociali negli Stati membri e, dunque, in altri termini, trascurando l’accento posto sul rischio di aggravio al sistema sanitario UE – un accento, forse, poco solidale e resiliente in questo momento storico – l’Unione sembra aver compreso la necessità di fronteggiare, con misure condivise, l’attuale pandemia, il vero spettro che attanaglia, oggi, non solo l’Europa, ma tutto il mondo. 

Si tratta di una posizione che certamente assurgerà a precedente storico e che dimostra come, presa coscienza della portata transnazionale di un fenomeno, gli Stati dell’Unione possano cooperare, consentendo la quasi totale convergenza delle loro diverse posizioni politiche in una concreta prassi giuridica; una prassi, questa, che si conforma alle disposizioni del Trattato e che mostra come, in presenza della volontà politica degli Stati membri, possano essere assunte decisioni forti che non sfocino necessariamente nel quadro dell’unilateralità.

Ebbene, forse, sono state proprio le misure autonome adottate da alcuni Stati a condurre l’Unione ad assumere una posizione unitaria in materia, almeno sotto il profilo esterno: oltre alla chiusura delle frontiere estere a livello comunitario, Austria, Danimarca, Estonia, Germania, Lituania, Norvegia, Polonia, Repubblica Ceca, Svizzera ed Ungheria hanno notificato alla Commissione europea la decisione di introdurre i controlli anche alle frontiere interne; Francia e Spagna, invece, de facto hanno reintrodotto tali misure, pur non avendo fatto pervenire alcuna notifica alla Commissione. 

Le procedure attuate sono eterogenee e prevedono principalmente controlli sanitari su chi intenda varcare i confini; in ipotesi più rigide, invece, è stato introdotto il divieto di ingresso per coloro i quali non siano residenti nel territorio di quello Stato.  Tali misure, seppur unilaterali, risultano conformi al Trattato di Schengen, che contempla delle deroghe alle sue stesse disposizioni in ipotesi di emergenza, per un periodo non superiore ai sessanta giorni. 

L’Europa, dunque, si trova di fronte ad un doppio binario: da un lato, a livello comunitario, chiude le frontiere esterne e risponde politicamente al blocco aereo da e per gli USA annunciato da Trump la scorsa settimana, dall’altro, sul piano dei singoli Stati membri, assiste al blocco unilaterale di taluni confini interni. 

L’obiettivo della Commissione, infatti, è quello di tutelare la libera circolazione di merci e persone all’interno dell’Area Schengen, ossia evitare che gli Stati continuino a chiudere in via autonoma le frontiere interne all’Unione; il Portavoce Capo della Commissione europea, Eric Mamer, a riguardo ha affermato che: «Il coronavirus è diffuso già in tutti i Paesi, quindi la chiusura dei confini interni non è il modo migliore per bloccarlo».  Paolo Gentiloni, Commissario europeo agli Affari economici, ha sottolineato come «Non ci si possa rassegnare all’idea che il mercato unico, che è una delle grandi forze dell’UE, sia una vittima di questa emergenza sanitaria […] il virus non si ferma chiedendo un passaporto al confine di un Paese». 

La Commissione europea sta lavorando per rimuovere quei limiti statali che bloccano i trasferimenti di materiale sanitario e personale medico, nonché per creare delle corsie preferenziali adibite al passaggio di cibo e medicine; ed infatti, la libera circolazione appare essenziale sia per assicurare le forniture alimentari, sia per garantire, in via generale, tutte le catene di approvvigionamento e di servizi essenziali, senza che si ponga la necessità di apporre delle certificazioni “Covid-19 free” per il trasporto di merci. 

Le linee guida presentate dalla Commissione, dunque, mirano ad armonizzare le disposizioni nazionali in materia: esse non escludono la sovranità nazionale in ambito di controllo e verifica circa lo stato di salute dei cittadini europei che intendano accedere ai Paesi firmatari dell’Area Schengen, ma impediscono il verificarsi di ipotesi di discriminazione, fondate sulla mera appartenenza nazionale ad uno specifico Stato. 

Le precedenti esperienze storiche in materia di sospensione del Trattato di Schengen riguardano deroghe adottare esclusivamente dai singoli Stati membri, in ragione di esigenze connesse alla prevenzione di fenomeni di terrorismo, al contenimento dei flussi migratori o al mantenimento dell’ordine pubblico come, ad esempio, la sospensione avvenuta ad opera dell’Italia, nel 2001, in occasione del G8 di Genova.

La sospensione del Trattato a livello comunitario, invece, come suggerito dall’Ambasciatore Raniero Vanni d’Archirafi, «offre l’immagine di un’Unione che ha ripreso in mano il ruolo di iniziativa che deve avere per gestire questo tipo di emergenze». 

Dinnanzi ad una crisi sanitaria di questa portata e in seguito alle dichiarazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è fondamentale che vi sia una piena cooperazione tra tutti gli Stati membri dell’UE e che l’Unione si prenda carico della sua veste di attore unico sul piano internazionale, nonché del suo ruolo di mediatore e sintetizzatore delle posizioni dei singoli Paesi che la compongono.

Sotto questo profilo, con l’operato della Commissione, l’Europa ha fatto la sua parte: non ci resta che comprendere come e se gli Stati rispetteranno le linee guida in materia; difficilmente, questa volta, si potrà affermare che è sempre colpa di Bruxelles. 


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