Numeri o Valori? Economia, etica e fiducia

L’economia, all’interno del panorama delle scienze sociali, rappresenta un caso particolare: può essere considerata, da un lato, una scienza di tipo logico-matematico a tutti gli effetti, data la razionalità degli strumenti che utilizza (teoremi, formule, modelli sistemici, ecc.); ma dall’altro sembra sconfinare nel campo delle scienze umane, dato il suo interesse per lo studio del soggetto e dei meccanismi che orientano le scelte individuali e collettive. È proprio quest’ultimo aspetto che risulta interessante e da cui quest’analisi intende partire.

Hilary Whitehall Putnam, che è stato per molti anni collega ad Harvard del famoso economista indiano Amartya Sen (Santiniketan, 3 novembre 1933) – nonché Nobel per l’economia nel ’98 – propone, nella sua opera “Fatto/Valore. Fine di una dicotomia” (titolo originale: The Collapse of the Fact/Value Dichotomy and Other Essays, 2002) di superare la canonica dicotomia tra “fatti” (condizioni oggettive e stati di cose indipendenti dall’osservatore) e “valori” (valutazioni soggettive e dipendenti dalle condizioni storico-socio-culturali dell’osservatore), individuando nella argomentazioni di Sen l’aspetto per cui bisogna mettere in risalto la componente valoriale all’interno del complesso sistema delle transazioni economiche e dei criteri oggettivi in base ai quali operiamo scelte.

L’invito a questo stravolgimento concettuale con cui per decenni, se non secoli, ci siamo approcciati alla conoscenza scientifica1, si basa per Putnam sulla tesi centrale secondo cui “fatti” e “valori” siano inestricabilmente intrecciati, esperienza che diviene per lui evidente approfondendo l’analisi dei più comuni criteri che una teoria scientifica deve soddisfare per potersi dire tale.

La «validità», la «coerenza», la «ragionevolezza», la «completezza», «la correttezza», tutti concetti che compongono l’ideale scientifico di “oggettività” e “razionalità” di una teoria, non possiamo che riconoscerli, dice Putnam, come criteri di valore, secondo i quali, appunto, valutiamo che una teoria sia migliore (e non a caso si utilizza il comparativo dell’aggettivo “buono”) di un’altra.

La tesi racchiude, dunque, l’asserto implicito che noi “scegliamo guidati da questi valori epistemici, indagando non su tutte le storie e i miti del mondo ma solo su quelle di cui abbiamo buone ragioni per fidarci, in base a questi medesimi criteri che stabiliscono cos’è una buona ragione”. In questo modo, si sottolinea come la scelta di una teoria piuttosto che di un’altra, così come la scelta di un’azione piuttosto che un’altra, è guidata in modo essenziale da un insieme di valori tra i quali, nel caso specifico dell’economia, spicca quello di fiducia.

L’errore fondante, però, è stato l’aver identificato l’oggettività di una conoscenza con la descrizione dello “stato di cose” che la rappresenta e questo ha portato a stigmatizzare la dicotomia tra “fatti” e “valori”. Ma “fatti” e “valori” non sono slegati, secondo Putnam, anzi, i criteri di valore (valori epistemici) sono parte integrante della realtà dei fatti. La conoscenza dei fatti, quindi, presuppone la conoscenza dei valori e la conoscenza dei valori presuppone una conoscenza dei fatti e questo porta a ritenere che non ci sia un’etica vera a priori ma che gli stessi criteri di valore si modellino a partire da una oggettività di fondo che ha le sue radici nel reale.

Qualsiasi percezione del mondo implica infatti dei concetti, i quali a loro volta, possono (o devono?) essere criticati, da ciò segue – per proprietà transitiva – che la percezione stessa non sia mai un dato inequivocabile, incorreggibile, ma a sua volta sottoponibile a critica e quindi soggetta a modifica.

Quindi, se “credere ragionevolmente” che una teoria sia vera, giusta, migliore, di un’altra teoria presuppone che io abbia “buone ragioni” per crederci, il criterio valoriale a sostegno di questa credenza può benissimo ridursi, come citato prima, ad una questione di fiducia. In che cosa? Nelle buone ragioni (criteri di oggettività ragionevolezza, coerenza e così via) che sostengono la teoria e generano la mia credenza, e così il cerchio logicamente si chiude.

Detto questo, se assumiamo che la fiducia regoli il modo in cui, in generale, costruiamo l’impianto delle nostre credenze e delle nostre scelte, sarebbe dunque inverosimile non pensare che essa non svolga un ampio ruolo nel terreno delle nostre scelte. Ed è qui che la questione interessa da vicino il campo dell’economia che a partire da Smith e Ricardo ha portato in auge l’immagine dell’uomo come homo oeconomicus, così come comunemente intesa, che storicamente ha coinciso con la scalata sociale della borghesia nell’Ottocento (dopo il 1789).

Questa immagine, molto influente ancora oggi, si fonda tuttavia nell’opinione di Amartya Sen su di un grave errore interpretativo del pensiero di Smith, il quale nei suoi insegnamenti, lungi dall’essere il profeta dell’homo oeconomicus che si concentra unicamente sul vantaggio e sull’interesse di una scelta, “non basava la salvezza economica su una qualche motivazione unica”.2

A questo proposito Sen si interessa di chiarire qual è il modello di “razionalità economica” corrente e, nello specifico, quale idea di coerenza adottare tra le due proposte dalla “teoria economica prevalente”3, se l’idea di una “coerenza interna alla scelta” o quella di una coerenza intesa come “massimizzazione dell’interesse personale”. Appare chiaro che l’adozione sic et simpliciter dell’una o dell’altra idea non basta a rendere conto della razionalità di una scelta in modo esaustivo.

Se l’aspettativa di coerenza stabilisce il criterio della razionalità e se il criterio di razionalità sta alla base della costruzione di una “buona ragione” degna di fiducia, occorre, sulla base di queste due declinazioni di coerenza, far discendere i due tipi di fiducia noti al lessico dell’economia e della finanza, il quale distingue la reliance (fiducia interpersonale) dalla confidence (fiducia sistematica o istituzionale).

La fiducia, in entrambi i casi, agisce come “riduttore dell’incertezza” la quale è “connessa all’incompletezza dei contratti e alle informazioni incomplete in cui si svolgono le transazioni economiche”. 4 Notiamo dunque che lungi da ciò che viene proposto dalla teoria dei giochi, la quale – almeno nell’idea di Neuman e Morgestern, autori di Theory of Games and Economics Behavior del 1944 – pretende di rendere conto della razionalità di una scelta solo sulla base di deduzioni animate dalla volontà di “descrivere matematicamente il comportamento umano”,5 la razionalità della scelta non può essere spiegata solo da un punto di vista logico-deduttivo, perché i criteri valoriali come la fiducia (che riposa sulle pretese di coerenza e razionalità del nostro intelletto) permeano proprio le nostre pretese di oggettività.

Da ciò è possibile concludere, dunque, che il “bisogno” che una teoria che funzioni sia “coerente”, “completa”, “plausibile”, “ragionevole”, “semplice” e finanche “bella” è in realtà un bisogno che si fonda su criteri etici e soprattutto giustificati e giustificabili da un punto di vista razionale. Il perché in fin dei conti preferiamo la coerenza all’incoerenza è piuttosto banale: la coerenza di una idea o di una scelta ci comunica un quadro della realtà più completo e verosimile, soddisfa il bisogno di esaustività che ogni conoscenza razionale esige. Se tutti gli uomini desiderano sapere, ciò implica infatti che essi vogliano sapere qualcosa di “vero”, di “esatto”, desiderando che le loro acquisizioni intorno al mondo siano “giuste” e “corrette”.

Ebbene, tutte queste pretese che il nostro intelletto avanza, superando la dicotomia tra “fatti e valori” proposta da Putnam, appaiono basate su principi valoriali, ossia criteri etici. Il risultato teorico-pratico che la teoria economica può trarre da questi argomenti e che speriamo venga più spesso tematizzato e discusso dagli economisti accanto a grafici e statistiche, è quindi il poter affermare quanto sia insensato e fuorviante ritenere che “ragioni etico-pratiche” ed “esperienze fattuali o insiemi di dati” debbano essere letti come governati da principi incompatibili se non addirittura contrari, ritenendo oggettivi solo i secondi e relegando i primi solo alla sfera di una soggettività emotiva e irrazionale.


1 Storicamente la dicotomia fatto/valore risale alla tesi di David Hume (1711-1776) secondo cui non si può derivare un “devi” da un “è”, dunque un principio normativo da un fatto o stato di cose.

2 Fatto/Valore p.56.

3 Ivi, p. 57.

4 http://www.treccani.it/enciclopedia/fiducia_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/

5 https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_dei_giochi