Bangladesh punta al futuro dei minori Rohingya

I Rohingya sono una delle tante minoranze etniche esistenti in Myanmar (prima Birmania) ma ciò che distingue i Rohingya, dalle diverse piccole comunità etniche che abitano il paese, è la loro religione. I Rohingya, infatti, rappresentano la più grande comunità musulmana sunnita in un paese prevalentemente buddista. La consistente presenza di questo gruppo etnico è interpretata come una minaccia dal governo birmano, che riconosce nel buddismo l’unico credo nazionale e, dunque, rifiuta di considerare i Rohingya come minoranza etnica nazionale.

I Rohingya, a partire dall’Ottobre 2016, sono stati vittime di innumerevoli abusi e violenze, perpetrate in seguito alle operazioni militari svolte dal Tatmadaw-corpo militare birmano- all’interno dello stato di Rakhine. Questa situazione di alta precarietà ha reso i Rohingya il popolo più perseguitato del mondo. A causa dell’alto tasso di violenza i crimini commessi contro i Rohingya sono stati classificati come crimini contro l’umanità e genocidio. La sistematicità di tali crimini ha costretto uomini, donne e bambini Rohingya ad abbandonare le proprie case e fuggire, trovando speranza di salvezza nel vicino Bangladesh.

L’arrivo di oltre 700.000 Rohingya nel campo di rifugiati più grande del mondo, Cox’s Bazar, ha contribuito, da un lato, a garantire la salvezza ai Rohingya e, dall’altro lato, a creare una convivenza ‘forzata’ fra bengalesi e Rohingya. Quest’ultima non è stata facile a causa del sovraffollamento del campo e dell’esposizione dei rifugiati ad ulteriori rischi e abusi. L’elemento più critico da considerare, all’interno del campo di Cox’s Bazar, è associato all’elevato numero di bambini che rappresentano circa il 50% del numero totale di rifugiati Rohingya in Bangladesh. I piccoli Rohingya sono, così, i soggetti più vulnerabili di questa crisi umanitaria che ha colpito tutta  la popolazione Rohingya.

La vita dei minori Rohingya è stata scandita dalla privazione di una normale vita quotidiana e dall’isolamento generato dall’abbandono della propria terra d’origine, la quale li ha privati perfino delle emissioni di certificazioni di nascita, contribuendo così a creare generazioni di bambini senza identità. L’isolamento per i piccoli Rohingya è stato, per di più, incentivato dal negato accesso ad un livello di istruzione superiore, a causa delle politiche interne bengalesi che hanno manifestato un rifiuto verso un’apertura a corsi di insegnamento in una lingua che non fosse il bengali, imponendo, di conseguenza, solo un curriculum bengalese nelle scuole.

Nonostante l’adesione e la ratifica del Bangladesh alla Convenzione sui diritti del bambino delle Nazioni Unite (UN Convention on the Rights of Child, CRC), che formalmente lega il paese ad osservare i diritti dei bambini ed ad adottare politiche che rispettino il principio del ‘best interest’ del minore, il Bangladesh-almeno fino all’anno scorso-si è dimostrato ben lontano dal rispettare gli impegni presi sulla sfera internazionale.

La preoccupazione del governo bengalese è sempre stata quella di una possibile estensione della permanenza dei Rohingya in Bangladesh, se le condizioni di vita, quindi dell’istruzione, fossero migliorate. Solo recentemente, tuttavia, la condizione dei minori rifugiati è cambiata.

Il governo del Bangladesh ha infatti dichiarato che si impegnerà a garantire un’istruzione a tutti i giovani rifugiati Rohingya: in particolare, sarà concessa un’educazione di secondo livello ai giovani fino ai 14 anni, secondo un curriculum birmano, mentre per i giovani di età superiore sarà previsto uno skills training: un addestramento mirato allo sviluppo delle proprie capacità. L’obiettivo, secondo quanto affermato dal Ministro degli Esteri bengalese Masud bin Momen, è: “mantenere viva la speranza dei bambini Rohingya verso il futuro.”

Questi rappresentano importanti risultati, raggiunti grazie all’intervento della comunità internazionale e delle organizzazioni internazionali, quali Unicef e Amnesty International, che hanno combattuto per la tutela dei diritti umani dei piccoli Rohingya, mobilitandosi anche per l’ottenimento di finanziamenti adeguati alla creazione di progetti mirati ad una giusta ed equa formazione scolastica.

Saad Hammadi, attivista dell’Asia meridionale per Amnesty International, si è espresso in merito all’importanza dell’educazione per dei bambini Rohingya, sostenendo che: «I benefici dell’educazione dei bambini non possono essere sottostimati: possono parlare per loro stessi, reclamare i propri diritti e sollevare se stessi e gli altri da una situazione difficile». I piccoli ma significativi passi mossi dal governo bengalese fanno ben sperare che il Bangladesh sia realmente coinvolto nella vita dei Rohingya, al fine di evitare che si creino i presupposti per una “lost generation” di minori Rohingya.