Taxi Driver, la solitudine allo specchietto retrovisore

“Taxi Driver” (1976, diretto da Martin Scorsese, scritto da Paul Schrader) è il ritratto della desolazione sociale e mentale. Un dipinto il cui scenario è una New York dopo una inutile guerra, quella del Vietnam. Il nostro protagonista Travis Bickle (Robert De Niro) è un veterano,un ritornato, ma non del tutto. Soldato di un grande fallimento che è sia la guerra stessa, ma anche un grande fallimento dentro l’essere umano, un reduce che ritorna spaesato e senza scopo. Egli esiste?

Travis soffre di insonnia, e trova nel lavoro di tassista notturno un modo per compensare le ore oscure. Non dorme ed è solo. Passa le sue giornate riempendo quel vuoto tra cinema a luci rosse e guardando dallo specchietto retrovisore del suo taxi. Guarda le tracce della società che accompagna da una parte all’altra. Ne vede il suo putridume nonostante le apparenze. Ci troviamo perciò a vivere in una società che, pur mostrandosi splendida e perfetta, nel suo interno sta marcendo.

La grande protagonista è la solitudine. La solitudine di un uomo che non è più uomo. Isolato dalla società, invisibile ad essa. L’emblema del ruolo del tassista. Il suo lato umano quasi scompare, la gente chiama il taxi, entra, dice dove vuole andare e nel tragitto è come se lui non ci fosse. Travis assiste nemmeno come pubblico, assiste inesistente. Egli prova a rientrare dentro la società, ma dal ritorno del Vietnam non vuole accettare questa realtà. La violenza dilagante senza senso, una realtà falsa che provoca il lui disprezzo e disgusto.

Anche quando prova ad interfacciarsi con una relazione sentimentale, viene rifiutato dietro un meccanismo che nasconde tutta quella ipocrisia che fa parte dell’essere umano. «La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo». Travis è l’antieroe per eccellenza del cinema americano, salva una ragazzina prostituta (Jody Foster) massacrandone il pappone. Il regista ci invita ad identificarci con un personaggio negativo per antonomasia, del quale però è facile condividere l’alienazione nella grande città e sposarne la visione disgustata del lerciume metropolitano.

«Vengono fuori gli animali più strani la notte». Travis ha trovato un significato. Furia omicida, cresta in testa, tutti muoiono, tutta questa realtà deve essere purgata e depurata, anche lui che alla fine impersona tutto ciò che di marcio e malato c’è nella società. Travis contro se stesso, il suo demone, la sua solitudine, contro il fallimento di un sogno che per una generazione è stato inculcato nelle ingenue menti speranzose.

Il sogno di un mondo migliore, un mondo sincero e fatto di condivisione. Travis contro il suo essere un “traumatizzato”, un reduce che nessuno ha aiutato, un reduce che infine viene proclamato eroe pur di non ammettere che sia un malato, pur di non ammettere che sia una conseguenza dell’incubo americano.

Il film racchiude tre poetiche fondamentali. La prima è consolidata dall’ambientazione, una città infernale, una New York che non ha un ruolo statico,ma è quasi un vero e proprio personaggio. È la versione acida del perbenismo e del buonismo della società americana e di tutta la società occidentale: c’è la violenza della prostituzione, il vandalismo e l’odio, là dove la Tv mostra scene di famiglie perfette o alle prese con banali problemi.

Travis in questo scenario si muove come un traghettatore di anime in questo paesaggio liquido. Ecco un’altra caratteristica del film, l’acqua. Sempre presente invocata con richiamo al diluvio biblico, fuoriesce dagli idranti e trasforma le strade di New York nell’infernale palude Stige. Travis è Caronte e i suoi passeggeri le anime da traghettare da una parte all’altra di questo inferno.

La poetica dello specchio, il riflesso della società, gioca un grande ruolo in Taxi Driver. La solitudine del protagonista funge da catalizzatore per questa rabbia occulta, il mito del successo lo distrugge da dentro e sfocia nella violenza pubblica, spettacolare, legandosi a quei famosi “15 minuti di celebrità” decantati da Andy Warhol. L’uomo davanti allo specchio cerca di rientrare nel mondo, e riappropriarsi di una collettività che alla fine non gli appartiene più.

E quindi lui stesso, attore e spettatore, prova a vedersi con gli occhi di una società che però lo isola; lo specchio è prima il filtro attraverso il quale osservare, la guarda (lo specchietto retrovisore del taxi), poi diventa il suo pubblico, il suo “alleato”; è l’elemento davanti al quale provare la sua parte, al quale mostrare la sua abilità: «Are you talking to me?». In questo momento ci viene mostrata la fusione tra una realtà narrata e una realtà vissuta.

La terza poetica viene richiamata da due tipi di violenza, quella esplicita e quella “vera“. Nella violenza esplicita troviamo tutto quel “parco immagini” che ci raccontano gli anfratti oscuri delle grandi società metropolitane, la prostituzione, la droga, sangue, atti vandalici. La vera violenza è quella che subisce Travis, l’isolamento, la difficoltà nell’instaurare rapporti con il prossimo, l’impossibilità di amare.

Quanto possono essere attuali questi temi? Sotto forme diverse e più subdole, in una società sempre connessa, fatta di like e migliaia di amici sui social, rimaniamo isolati. Esposti in una vetrina che non parla realmente di noi, esponiamo quasi tutto della nostra apparenza perché non abbiamo coltivato la nostra anima, la nostra mente.

Siamo la società che esce per postare sui social, che si conosce tramite app, ci si incontra non più per caso, facendoci bastare la falsità della vetrina. La violenza è la stessa, muta solo il medium. Magari invece di un pestaggio per la propria diversità o difficoltà nell’approcciarsi, si pratica il social shaming, l’umiliazione pubblica e l’auto isolamento che porta all’autodistruzione. Siamo tutti tassisti. Il nostro taxi è il computer o i nostro smartphone, e la home è il nostro specchietto retrovisore dove assistiamo allo svolgimento di una società di cui vogliamo far parte disprezzandola contemporaneamente. Ci infervoriamo per digitare la nostra opinione, e poi non abbiamo la volontà di scendere in piazza per lottare.

No, non impazziremo tutti come Travis. Siamo arrivati oltre, noi siamo quelle fughe di un pavimento ormai lasciato a incrostarsi negli anni. Possiamo riemergere, ma per quanti secondi riusciamo a guardarci davvero allo specchio?