“Campamento climatico” dei popoli contro il terricidio: l’esperienza di un’attivista italiana

«L’appuntamento é alle 7:30 e qui mattino, sera e notte le temperature si abbassano repentinamente. Ci si incontra per accompagnare la cerimonia mapuche che chiede permesso al territorio che attraverseremo in questi giorni e per favorire le relazioni e la comunicazione fra noi».

Inizia così il racconto di Marita Cassan, che ha partecipato alla Carovana dei popoli contro il terricidio. Le persone arrivano da tutto il mondo in Argentina per marciare in favore della giustizia climatica. La manifestazione si è svolta nella provincia di Chubut (Patagonia, Argentina), territorio in cui i Mapuche fanno ardua resistenza da tempo contro i Benetton.

Marita è attivista di NUDM e partecipa all’assemblea transterritoriale Terra Corpi Territori. Al campamento hanno partecipato realtà come Ya Basta, Fridays for future, Plaza de los pueblos, Ecologistas en acción da Madrid, diverse realtà LGBT+, NUDM Verona e Venezia, Extinction rebellion, le donne di diverse comunità mapuche e realtà e movimenti ecologisti, transfemministi, afrodiscendenti, indigene che hanno ascoltato ed accolto la chiamata del movimento Mujeres Indígenas por el Buen Vivir, il movimento che ha lanciato il campamento per incontrarsi, dialogare e lottare contro il “terricidio”- parola proposta dal movimento che sostituisce il più freddo “biocidio” – e che organizza donne di 36 nazioni indigene.

Terricidio è un termine coniato per scelta: «Accusiamo di terrorismo i governi e le aziende che stanno uccidendo i nostri territori. Chiamiamo terricidio l’omicidio non solo degli ecosistemi tangibili e dei popoli che lo abitano, ma anche l’assassinio di tutte le forze che regolano la vita sulla terra, quello che chiamiamo un ecosistema percettibile. Questi spiriti sono responsabili della continuazione della vita sulla faccia della terra e vengono distrutti insieme al loro habitat».

La Terra è qui – giustamente- intesa come un organismo che vive, respira, interagisce, muta ed invecchia, in cui l’armonia tra tutte le forme di vita deve essere protetto ad ogni costo, scostandosi dalla concezione antropocentrica e accettando le regole dell’armonia naturale delle cose. Gli obiettivi di questo incontro internazionale sono quindi chiari: in contrapposizione con le politiche imperialiste, estrattiviste e capitaliste, contro lo sfruttamento, la sottrazione dei territori a chi li abita per imporre agroconsumo, pesticidi e controllo della produzione.

I popoli originari chiedono che si eliminino le frontiere dello stato nazione che ha imposto, attraverso politiche coloniali e capitaliste, l’imposizione di confini a popoli che quelle di quelle terre sono nativi e non ne riconoscono i confini. Nell’intersezione tra gli stati di Brasile, Paraguay, Chile e Argentina si trova infatti un territorio abitato da diversi nativi, tra i quali – i più conosciuti – i popoli Mapuche e Guaranì che, tra le altre cose, hanno lanciato una campagna per la protezione del fiume Carrenleufù che dal 2005 è minacciato dalle compagnie minerarie che, insieme al governo, vogliono costruire una diga e quindi togliere acqua a chi quei territori li vive, in favore dell’industria mineraria.

Carlos Arturo Lülle è un imprenditore colombiano, fondatore e capo dell’Organizzazione Ardila Lülle, un importante conglomerato colombiano che controlla società come RCN TV, la bibita Postobon e la squadra di calcio dell’Atlético Nacional. Il suo patrimonio netto è stimato in oltre 2,4 miliardi di dollari USA. Proprio lui è uno degli obiettivi delle lotte: dal 2014 il Movimento di Liberazione di Madre Terra ha recuperato parte dei territori del latifondista Lulli. Il motivo è che l’industria occupa i territori dei nativi creando tra le altre cose carenza d’acqua, a causa della deviazione o distruzione delle sorgenti, e impossibilità per le popolazioni native di coltivare la loro terra. Marta racconta come la repressione sia stata dura e, nonostante questo, sia stato possibile riconquistare 3300 ettari di terra con un processo di “autogestione”: con 310 tentativi di sgombero, gli attivisti continuano a coltivare orti nascosti e portano avanti la Marcia Della Comida condividendo il raccolto con chi non può coltivare.

Questo racconto è importante per avere la dimensione del contesto generale in cui questo appuntamento è avvenuto e del perché è rilevante. E in questo contesto le protagoniste sono le donne: il colonialismo e l’imperialismo si scontrano frontalmente con le donne in quanto, per usare le parole di Silvia Rivera Cusicanqui (storica e sociologa Aymaro boliviana), il patriarcato è una parte sostanziale del colonialismo interno ed esiste un parallelismo tra la dominazione etnica e quella di genere.

Per questo le Mujeres Indígenas por el Buen Vivir hanno indetto questo campo climatico: per discutere e fare il punto su temi quali le grandi miniere, l’acqua, il razzismo e il genocidio delle comunità afrodiscendenti, la costruzione di reti, le azioni e le pratiche all’antispecismo e dell’ecologismo, i processi di decolonizzazione e i trattati di libero commercio, l’impatto delle multinazionali e la simbologia Mapuche.

Le stesse donne Mapuche, in questo articolo dichiarano: «Nel contesto della espropriazione dei nostri territori, le donne Mapuche si organizzano attorno alla difesa di loro, delle nostre acque, del recupero della nostra lingua – il mapudungun – e per diffondere la nostra saggezza riguardo alla cura della nostra natura. Le donne mapuche stabiliscono alleanze con altri settori della società cilena per posizionarsi e alzare la voce contro lo stato del Cile e le sue politiche patriarcali e neoliberiste e il suo tentativo di omogeneizzazione. Per camminare verso il buon vivere dei nostri popoli, dobbiamo cambiare l’attuale sistema che ci governa, lottare per un mondo in cui i diritti della natura sono rispettati come sistema vivente. Di fronte a tutto questo, ci chiediamo: gli Stati saranno disposti ad ascoltare la nostra chiamata al buen vivir per tutti?»

Alla fine della settimana di incontri, il 10 febbraio si è tenuta la marcia della “Carovana dei popoli contro il terricidio” contro il progetto La Elena. Radio sonar ha seguito il percorso (qui i contributi) al quale ha partecipato anche Marita, che ha raccontato ad Eco Internazionale la sua esperienza.

«Sono Marita Cassan, sono un’attivista di NUDM e partecipo all’assemblea transterritoriale “Terra Corpi territori spazi urbani, antispecista transfemminista, NUDM Roma”, dove vivo attualmente. Ho vissuto all’estero per 22 anni sono tornata da 3 anni in italia. Ho sentito la forza di NUDM che si stava lanciando, sono tornata a pochi mesi dalla manifestazione del novembre 2016. Ho cominciato a mettermi in contatto con loro e partecipare. Mi ha spinta l’aver affrontato la violenza di genere come una violenza strutturale, che ci colpisce in tutto il nostro agire quotidiano, una violenza esercitata da un sistema patriarcale e capitalista.

Nella narrazione sulla violenza, sull’educazione e sulla formazione economica abbiamo anche incluso la riflessione sulla violenza ambientale e come questa relazione di dominio si esplichi e colpisca rispetto alla necessità del sistema capitalista di riprodursi, imponga binarismi (maschio/femmina, bianco/nero, etero/non etero, abile /disabile) di oppressione che ci costringono all’affermazione dell’autodeterminazione dei corpi e all’autogestione degli spazi. Questo mi è sembrato un approccio attento, trasversale e internazionalista. Queste sono le tematiche forti e di genere che mi hanno spinta qui. Quello che porto a casa dopo l’esperienza del campamento climatico dei popoli contro il terricidio è il dialogo che si è creato ancora una volta, relazioni in un contesto in cui popoli da diversi paesi, contesti e culture, tradizioni, pratiche totalmente diverse, situate sia nel nord che nel sud del pianeta.

Si è lanciato il movimento dei popoli contro il terricidio e c’è stata molta forza. Il fatto che il campamento sia stato organizzato dalle Mujeres por el Buen Vivir è in sé un atto di forte autodeterminazione: non dimentichiamo che le donne indigene e afrodiscendenti vivono la colonizzazione e il patriarcato del sistema del capitale ma anche il patriarcato nelle loro comunità. La costruzione di questo campamento è stato difficile: per la luce elettrica hanno dovuto fare una lotta con la compagnia per far arrivare un cavo di alta tensione fino al luogo del campamento, sulle rive del fiume che, col progetto La Elena inonderebbe i territori.

Hanno costruito tutto, pure il forno per il pane e le docce calde col sistema di stufe a legna. Tutto questo con le difficoltà di trasporto. Le sedie ce le siamo caricate dalla strada sterrata in alto che portava al paese. Hanno partecipato donne da tantissime comunità da nord a sud; per loro questo viaggio è stato lunghissimo, ore ed ore di pullman per prendere la parola e raccontare le loro storie. La mamma di Ismael Ramirez, tredicenne ucciso dalla polizia mentre raggiungeva la casa della zia, ha parlato dell’assassinio di suo figlio e di come questo l’abbia spinta a parlare – il ragazzino, dopo un presunto saccheggio ai danni di un supermercato, è stato colpito al petto e il poliziotto che lo ha ucciso è ancora libero per le strade di Sáenz Peña. Tutte le donne hanno raccontato con rabbia, con dolore, con forza e determinazione il loro vissuto, ma anche le storie di lotta, la voglia di costruire rete tra noi per far si che sia un lavoro in divenire nel tempo, un compromesso tra le persone che si sono incontrate.

Il 6 marzo le Mujeres Indigenas por el Buen Vivir porteranno una carta alla Ministra delle pari opportunità per chiedere al presidente Fernandez un incontro. Sarà la prima volta che le donne del movimento entrano dalla porta principale, il primo incontro ufficiale col governo. Poi ci sarà la marcia dell’acqua, tema centrale di tutte le discussioni: dalla desertificazione delle terre del nord dell’Argentina alle miniere che inquinano l’acqua, dalle idroelettriche che vogliono costruire dighe, etc. Il 22 marzo la marcia arriverà a Buenos Aires. Le assemblee per l’acqua stanno facendo un gran lavoro in questo senso.

Faccio un appello: venite a vedere cosa lascia la monocoltura, che scorie lasciano le miniere, come si vive, venite a vedere la criminalizzazione e la repressione, venite a vedere la denutrizione, ma venite soprattutto a vedere la forza con cui vogliamo essere guardian* di questi territori. Territori che non ci appartengono, come rimarcano le indigene: non ci può essere proprietà su questa terra da parte degli esseri umani, è il territorio che vive nei corpi di tutte le forme di vita, animali umani, non umani, nello scorrere dell’acqua, nei minerali. Un invito è quello di assumersi delle responsabilità. Tutte le popolazioni indigene espongono i loro corpi e pagano con la vita le pratiche di resistenza, stanno difendendo la terra dalla violenza del sistema capitalista. Noi, le persone che vivono in occidente, dobbiamo assumerci la responsabilità di lottare contro questo sistema e per affermare una alternativa reale».