Propaganda antisemita, sempre lei: l’espulsione degli Ebrei dalla Sicilia

Nel corso del XV secolo, a Palermo, esisteva una folta e attiva comunità ebraica che viveva nell’integrazione e in prosperità. L’Isola siciliana, documenti alla mano, fino ad allora non conobbe eclatanti episodi di antisemitismo al contrario del resto dell’Occidente e questo ne fa un’affascinante eccezione di accoglienza e convivenza pacifica. Qui solo un dominio di affermazione eminentemente cattolica poté mettere in atto una vasta persecuzione contro gli Ebrei, un popolo che in Sicilia, e soprattutto a Palermo, ha messo radici profonde lasciando tracce altrettanto importanti.

Gli Ebrei abitano Palermo fin dal X secolo (e alcune fonti risalgono fino all’età romana). Lungo il corso del torrente Kemonia, a nord del Cassaro e a sud della Kalsa, fra i rioni Meschita e Guzzetta si sviluppava il “ghetto” ebraico – anche se è improprio definirlo così per l’accezione odierna, poiché si trattava di un quartiere vasto e ben collegato al resto della città – al quale si accedeva tramite una porta di ferro comunicante col centralissimo quartiere del Cassaro.

La sinagoga, il centro fondamentale della cultura religiosa ebrea, si trovava dove oggi campeggia il complesso del convento di San Nicolò da Tolentino, oggi adibito soprattutto ad archivio comunale. A riprova di questo dato storico, su un pilastro della chiesa si trova incisa l’iscrizione: «Il restaurato edificio una volta fu mare, poi triste palude, quindi orto e tempietto, finalmente, con passar degli anni, da sinagoga divenne piccola cappella di S. Maria del Popolo».

Chiesa di San Nicola da Tolentino (Palermo)

Nel XV secolo la giudecca palermitana si presentava come una serie di abitazioni a più piani, aggiunti di volta in volta per gestire l’aumento dei componenti della comunità, un po’ come è successo per il ghetto ebraico di Venezia qualche secolo più tardi. Gli ebrei palermitani erano una comunità piuttosto autonoma. Avevano infatti propri magistrati, scuole ed ospedali esclusivi, e una “Corte Rabbinica” creata ad hoc.

La libertà di cui godevano li aiutò a raggiungere negli anni un grado di agiatezza non indifferente. Gran parte degli appartenenti alla comunità ebrea erano artigiani, pescatori e mercanti di stoffe e pietre. Il cimitero si trovava dove oggi ha inizio Corso dei Mille e l’ospedale si trovava nelle vicinanze di via Divisi, adiacente alla sinagoga. Fu proprio la presenza di tale struttura a influenzare la denominazione della zona, chiamata infatti “dell’Ospedaletto”.

Dettaglio ingrandito di un’antica mappa del quartiere ebraico della Giudecca a Palermo

Fino all’arrivo degli Aragonesi, gli ebrei siciliani vivevano pacificamente e senza discriminazioni con la maggioranza cristiana. È proprio fino all’arrivo degli spagnoli nel XIV che non si trovano testimonianze a proposito di eclatanti atti antigiudaici. Un’eccezione rispetto all’Occidente di allora, attraversato da diverse persecuzioni. Furono i francescani e i domenicani ad attuare per primi una propaganda denigratoria nei confronti degli ebrei, spingendo le masse dei fedeli a diffidare da questa comunità e ad allontanarsi da «coloro che hanno ucciso Dio».

Fu così che l’antigiudaismo cominciò a manifestarsi in alcune zone della Sicilia. Non passò molto e i patriziati locali nascenti trovarono il pretesto per assecondare l’intolleranza religiosa e la persecuzione invocata dalla Chiesa cattolica. Esempio di quegli anni di violenza antisemita resta l’eccidio di Modica del 1474: un groviglio di urla, minacce e colpi mortali nel cuore della cittadina siciliana che lasciò sulle strade un numero imprecisato di vittime fra i 300 e i 600, compresi donne e bambini.

Il 31 marzo 1492 re Ferdinando II d’Aragona promulgò l’editto di Granada che prevedeva l’espulsione degli Ebrei dal regno di Spagna e, dunque, anche dalla Sicilia. Entro il 31 luglio dello stesso anno avrebbero dovuto allontanarsi tutti i giudei dall’Isola, pena la morte. Gli ebrei siciliani vennero accusati di proselitismo e usura, accuse chiaramente infondate e basate su una campagna diffamatoria sistematica. Come infedeli erano sottoposti a una dura tassazione, tanto da contribuire in maniera sostanziosa al bilancio regio spagnolo. Per questo motivo i viceré siciliani tentarono di scoraggiare l’attuazione dell’espulsione degli ebrei in quanto si sarebbe rivelato un danno consistente all’economia isolana.

Secondo le stime più accreditate, dei 35 mila ebrei che vivevano nell’Isola, solo 9 mila decisero di rimanere ma cambiando il proprio credo (almeno pubblicamente). L’opzione di conversione al cattolicesimo, stabilita come ultima possibilità di tolleranza da parte delle autorità spagnole, concesse agli ebrei la possibilità di restare in Sicilia. Questi erano stati disponibili ad accogliere il ricatto della conversione per sfuggire all’esilio, ma si erano mostrati lo stesso sospettosi e diffidenti. Non si accontentarono della parola dei vescovi e vollero una risposta “dall’alto”.

La promulgazione della lettera di re Ferdinando del maggio 1492 rassicurava tutti: a chi si convertiva cristiano il re cattolico, insieme a un trattamento benevolo, garantiva anche la sicurezza della persona e dei beni. Come previsto l’espulsione si rivelò un clamoroso boomerang per la “città tutto porto” che si ritrovò ben più povera economicamente e culturalmente. Era ben lontano il sentimento cristiano della pietà e della tolleranza.

La storia dei profughi ebrei siciliani è storia di un’integrazione fallita. È una storia che racconta una sopravvivenza ottenuta solo a spese della propria identità particolare, attraverso un processo accelerato di acculturazione mirato a cancellare in breve tempo i segni fisici e biologici di una diversità acquisita in quasi millecinquecento anni trascorsi in Sicilia. Una storia di persecuzione e propaganda, come tutte quelle basate su pregiudizi e azioni punitive di massa, basata sullo stesso ritornello umano della pretesa di superiorità di una categoria socio-culturale nei confronti di un’altra.