Migranti in Bosnia-Erzegovina: l’incubo di Vucjak

C’era una volta un ragazzo, il cui unico sogno era vivere una vita migliore. Prese i soldi e il coraggio e partì alla scoperta di un luogo pieno di possibilità e libero dalla guerra. C’erano una volta cento ragazzi come lui, poi mille, poi centinaia di migliaia. Non erano solo ragazzi, ma anche padri, madri, bambini. Ci sono ogni giorno, e continueranno ad esserci, solo che quel posto, pieno di possibilità e libero dalla guerra, non merita i loro sogni.

La Bosnia è diventata uno snodo principale per i migranti che cercano di entrare nell’UE, ma lo Stato non è in grado di gestirne i flussi, trovandosi di fronte ad una vera crisi umanitaria. Da Bihać passa una delle due rotte balcaniche, attualmente percorribili dai migranti: quella che dalla Turchia passa per Grecia, Macedonia, Serbia, Bosnia e, quindi, Croazia (l’altra, più accidentata, attraversa la Bulgaria).

Nonostante la Croazia non sia quasi mai l’obiettivo finale del viaggio, la polizia di confine è disposta a tutto pur di non lasciare transitare i migranti. Solo lo scorso novembre le autorità croate hanno aperto il fuoco su un gruppo di persone che stava attraversando il confine, ferendo gravemente un ragazzo. Il pericolo rende le persone caute, molti si fermano per mesi prima di trovare “l’occasione giusta” per andare oltre la Bosnia.

Qui la gente ricorda bene cos’è la guerra, sa cosa significa vivere in una tenda, soffrire il freddo e la fame. Per questo la popolazione, in un primo momento, si era dimostrata disponibile e ospitale nei confronti di chi, in modo pacifico, cerca di attraversare il confine. Eppure, quando la scorsa estate il governo ha deciso di aprire un campo, sul terreno di una vecchia discarica di rifiuti chimici, sembra essere stato attaccato da una forte amnesia.

Il campo di Vucjak, presso Bihac è più simile all’inferno che ad un luogo di sosta lungo il cammino verso una nuova vita. Aperto il 16 giugno 2019, si trova nel nord-ovest della Bosnia Erzegovina, e il confine con la Croazia è situato a un’ora di cammino. Durante la guerra, questi territori furono teatro di aspra contesa e l’area intorno al campo è tuttora piena di mine anti-uomo. L’estate ha obbligato i suoi residenti a convivere con i serpenti, l’autunno invece ha portato i cinghiali.

Più di mille uomini si sono trovati in questo incubo. Sono tutti i maschi non accettati dai campi ufficiali gestiti dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) che ospitano solo minori e famiglie. Sono Afgani e Pakistani, e tra loro non si parlano. Ognuno occupa una parte e non deve valicarne il perimetro. Niente acqua o luce, poco cibo, alcuni giorni niente. I migranti sono costretti a dormire per terra, raccontano alla BBC di essere in quelle condizioni da mesi, e di avere paura di ciò che accadrà durante il lungo inverno. «Sarebbe meglio morire in Afghanistan», afferma uno dei suoi abitanti.

C’era una volta un ragazzo, la cui unica possibilità di futuro sarebbe stata lontana dalla patria, una volta arrivato abbastanza lontano, si rese conto, guardando indietro, che probabilmente sarebbe stato meglio prendere una pallottola in testa che morire di stenti a migliaia di chilometri da casa.

Dietro il campo di Vucjak, in uno stabile abbandonato, un centinaio di migranti dormono ammassati sul pavimento, cercando di scaldarsi a vicenda con il calore dei loro corpi. Hanno tutti la scabbia e nessun accesso ai sanitari. In un garage poco più avanti la situazione è la stessa. Malattie infettive, niente cibo e niente prospettive, se non quella di trovare un posto all’interno del campo dove, almeno una volta al giorno, la luna rossa turca serve un pasto caldo.

Come temuto da molti, l’inverno ha reso le condizioni del campo ancora più infernali con neve e freddo intenso. Nell’estate del 2019, l’Unione Europea aveva dato 10 milioni di euro alla Bosnia per creare dei centri di accoglienza adeguati, ma l’azione è stata tutt’altro che tempestiva e, soprattutto, insufficiente. All’inizio di dicembre 2019 più di seicento migranti hanno iniziato uno sciopero della fame per esprimere la loro necessità di valicare il confine croato. Sempre lo scorso dicembre Sarajevo ha deciso di chiudere il campo di Vucjak e di trasferire i suoi abitanti in una caserma non lontano dalla capitale. Qui avranno, per lo meno, un tetto sulla testa.

C’era una volta un ragazzo di dodici anni, senza scarpe né parole. Nessuno conosceva la sua storia, se ne stava con l’aria spenta e gli occhi tristi su una branda priva di materasso nel campo di Vucjak. Le favole ci insegnano che gli eroi, per raggiungere la felicità, devono attraversare prove difficili. Gli avevano detto che sarebbe stato un lungo viaggio, ma che quella sarebbe stata la rotta più sicura verso il suo futuro. Nessuno sapeva di Vucjak, e chi lo sapeva ha creduto che sarebbe stato un inferno migliore di quello che stava vivendo.

Ora il nostro ragazzo senza scarpe ha un tetto sulla testa e due pasti caldi, ma le parole continuano a mancare. Se ne sono andate insieme all’illusione che quel viaggio, intrapreso con coraggio, lo avrebbe portato verso il suo lieto fine.

Il campo degli orrori è stato chiuso, ma la gente continua a riversarsi in Bosnia cercando di superare un confine invalicabile. La polizia locale ferma gli autobus che sono soliti fare la spola con la Croazia e ne fa scendere i non bosniaci. Non importa se in possesso di biglietto, i migranti vengono buttati giù a decine di chilometri dal confine, lasciati al freddo nel bel mezzo del nulla, con niente più di un briciolo di speranza. Perché chi ce l’ha fatta, chi dopo quel lungo e straziante viaggio, è riuscito ad entrare in Europa, è stato accolto a braccia aperte. O forse no.


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