La guerra alle porte?

A quattro giorni dalla morte del generale delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran Qasem Soleimani, in seguito all’attacco americano avvenuto nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, lo scenario geopolitico del Medio Oriente è irreversibilmente cambiato. Un atto, quello ordinato e rivendicato da Donald Trump e dal governo statunitense, gravissimo e inaspettato, le cui conseguenze non si sono fatte attendere.

C’è chi parla di atto di guerra, c’è chi sostiene che siamo sull’orlo della terza guerra mondiale. C’è chi si interroga sulla vera strategia di Donald Trump, presupponendo che ci sia una strategia, oltre a quella banale per cui gli Stati Uniti avrebbero semplicemente dimostrato ancora una volta di essere pronti a colpire a morte i propri nemici quando vogliono, ovunque essi siano e al di sopra del diritto internazionale e di qualsiasi considerazione morale.

Per capirci qualcosa, partiamo dall’inizio, ovvero dal momento che può essere a ragione considerato l’inizio di questa escalation: l’8 maggio del 2018, ovvero il giorno in cui Donald Trump ha disposto il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo con l’Iran sul nucleare. Al netto della storia delle relazioni tra Stati Uniti e Iran, i rapporti tra i due paesi sono tesi almeno dal 2003, quando in un celebre discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite l’ex presidente George W Bush inserì l’Iran nel cosiddetto “asse del male” insieme a Iraq e Corea del Nord.

A differenza dell’Iraq, in questi 17 anni è mancato il pretesto per un’invasione. E sebbene durante la presidenza Obama sembrava essere in atto un riavvicinamento, il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo, voluto e ottenuto proprio da Obama nel 2015, ha segnato un cambio di passo netto nella direzione di un’ostilità esplicita.

Nell’ultimo anno e mezzo, di fatto si sono susseguite una serie di provocazioni da entrambe le parti: da un lato gli Stati Uniti hanno rafforzato le storiche sanzioni sull’Iran, dall’altro l’Iran ha messo in atto una serie di attacchi e di sequestri alle navi petroliere occidentali, fino all’occupazione dell’ambasciata americana di Baghdad del 31 dicembre, in seguito al raid aereo compiuto due giorni prima dagli Stati Uniti contro alcune strutture delle milizie filo-iraniane al confine tra Iran e Siria. Azioni pensate e realizzate dalle Guardie rivoluzionarie dell’Iran, un corpo militare a metà tra un ministero degli esteri e un organismo di intelligence, di cui Soleimani era per l’appunto lo stratega.

Soleimani ovviamente era molto di più che un semplice generale, come dimostra la partecipazione massiccia ai funerali di questi ultimi giorni. Centinaia di migliaia di persone hanno invaso le strade e le piazze di Teheran, in un corteo secondo per proporzioni solo a quello organizzato per i funerali di Khomeini.

L’aspetto interessante è che molti di quelli che sono scesi in strada per rendergli omaggio sono gli stessi che fino a qualche settimana fa protestavano contro il governo. Come afferma Tiziana Ciavardini in un articolo uscito domenica sul Fatto quotidiano, «sorprende come anche chi non sia estremamente religioso e voglia cambiamenti all’interno del paese sia comunque addolorato da questa perdita. Non è tanto la perdita dell’uomo in sé che preoccupa, ma quello che questa morte potrebbe rappresentare.»

Ebbene, cosa potrebbe rappresentare? Come previsto da tutti gli analisti più accorti, la morte di Soleimani ha innanzitutto ricompattato la spaccatura interna al ceto politico iraniano tra l’ala moderata e quella più estremista legata agli ayatollah e ai pasdaran: tutti sono uniti da un odio rinnovato e viscerale nei confronti degli Stati Uniti. Lo spostamento degli equilibri politici verso posizioni più estreme chiude più di uno spiraglio alla diplomazia, cosa che d’altronde sta già succedendo.

Deputati iraniani cantano “morte all’America” in Parlamento

E qui arriviamo alla seconda conseguenza dell’attacco. L’Iran ha infatti annunciato di non ritenersi più vincolato agli accordi sul nucleare, in particolare a quelle disposizioni che prevedono un limite all’arricchimento dell’uranio, indice oggettivo di un uso militare dell’energia atomica per la costruzione di bombe nucleari. Sebbene il paese, contrariamente a quanto riportato da molti giornali, non sia ufficialmente uscito dall’accordo, ovvero da tutte le regole che esso prevede (una su tutte, i controlli periodici da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), di fatto la strada è quella.

La terza conseguenza rilevante è il contagio dell’instabilità in tutta la regione. L’Iran infatti si contende il ruolo di potenza regionale con l’Arabia Saudita e, in virtù sia delle alleanze sia dell’appartenenza religiosa (l’Iran è a guida sciita, l’Arabia a guida sunnita), è probabile che il paese troverà una sponda in Iraq e in Libano, sia dal punto di vista politico che da quello militare. In altre parole, le forze occidentali sul territorio dei due paesi sono in serio pericolo. Non a caso Trump ha rafforzato le misure di sicurezza per difendere i propri militari.

Dall’altro lato, il presidente degli Stati Uniti ha avuto e continua ad avere un atteggiamento a dir poco aggressivo. Non solo ha twittato una bandiera americana subito dopo l’attacco del 3 gennaio ma ha anche minacciato di colpire 52 siti in Iran di particolare interesse storico e culturale. L’Iran non sta a guardare. L’Ayatollah Khamenei promette “dura vendetta”. Per il presidente iraniano Hassan Rohani “non c’è dubbio che la grande nazione dell’Iran e le altre nazioni libere della regione si vendicheranno dell’orribile crimine commesso dagli americani”. Nella città sacra di Qom, in cima alla moschea di Jamkaran, è stata issata la bandiera rossa di Hussein: segno che l’Iran è pronto a combattere.

In che modo, è ancora presto per dirlo. Improbabile, agli occhi di molti analisti, che scoppi una guerra vera e propria: non è nell’interesse né degli Stati Uniti né dell’Iran. In particolare i primi dovranno affrontare un altro problema in Iraq, dove il parlamento ha chiesto al governo di stracciare l’accordo che dal 2015 prevede la presenza di truppe americane sul suolo iracheno per la lotta all’Isis. Molto più plausibile una guerra diffusa, combattuta con altri mezzi: attacchi informatici, attacchi alle petroliere, omicidi mirati.

Il raggio di questi attacchi dipende anche dalle reazioni degli alleati degli Stati Uniti, ovvero da noi e dai nostri governi. Da questo punto di vista, né l’Italia né l’Europa sembrano avere una strategia geopolitica chiara, sia per il peso delle alleanze storiche sia per la mancanza di una vera politica estera comune. Al momento si registrano soltanto appelli alla riduzione dell’escalation, pronunciati dall’Alto rappresentante per gli Affari Esteri Josep Borrell e condivisi dal Presidente del Consiglio Conte e dal Ministro degli Esteri Di Maio. Il 2020 si apre dunque all’insegna di un’instabilità generalizzata e sempre più preoccupante.


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