Fra’ Diego La Matina, il giustiziere che punì l’Inquisizione palermitana

Abbiamo tutti ben chiaro nell’immaginario comune l’antico inquisitore spagnolo: figura invincibile, uomo inattaccabile e certamente vittorioso sulle sue vittime. Sappiamo anche che tra il XV e il XVII secolo l’istituto “giudiziario” non prevedeva il diritto al giusto processo, la colpevolezza si giudicava con l’atto di fede e le confessioni si estorcevano con terrificanti torture. Ma una storia tutta palermitana, avvenuta a metà del Seicento, spezza l’immaginario per portare la vittima sul piano del giustiziere. È la storia di Diego La Matina, tramandata e arrivata a noi soprattutto grazie all’operato di illustri studiosi e personaggi.

Diego La Matina era un frate agostiniano originario di Racalmuto, un paese dell’agrigentino. A un certo punto della sua vita, come accadeva a tantissime persone in quel periodo, subisce l’accusa di eresia. Un marchio che faceva davvero paura. Piccolo dettaglio: il frate era anche un bandito, un ladruncolo che compieva qualche furtarello di tanto in tanto. Ed è quanto riporta la relazione dell’atto di fede del 1658 scritta dal qualificatore del Sant’Uffizio Girolamo Matranga. Lo «scorridore di campagna», come lo definisce Matranga, appare in antichi diari cittadini, gli scritti dell’avvocato Vincenzo Auria, dove si legge che «nell’anno 1644 si presentò ed abiurò in forma, e fu assoluto (assolto); e così un’altra volta nel 1645».

Fra’ Diego La Matina, vita da criminale

Nel 1646 non ebbe però scampo. Come ricostruito da Leonardo Sciascia, il quale ha scritto di Diego La Matina in una sua opera, il frate sconta la condanna alle galere per i furti di cui era stato protagonista. Il fisico giovane e robusto di venticinquenne gli permette di sopravvivere alla dura vita di detenzione durata (secondo la condanna emessa al tempo) ben cinque anni. Fuggirà diverse volte ma verrà sempre riacciuffato. Affronta il soffocante reato di eresia – pare da accusa anonima – oltre che di blasfemia e disprezzo per le immagini sacre. Arriverà alle carceri dello Steri a Palermo. Saranno anni terribili.

fra diego la matina
Il Palazzo Chiaramonte, detto anche Steri, si trova in Piazza Marina a Palermo

Sciascia – dopo le ricostruzioni di Giuseppe Pitré e Luigi Natoli – ricostruisce la storia di Fra’ Diego con grande fatica, vista la scarsità delle fonti. Difficoltà principale: la perdita della documentazione ufficiale dopo l’incendio dell’archivio, nel 1783, ordinato dal viceré Caracciolo, che distrusse tutti gli atti del tribunale. Si sa comunque che il pubblico ministero del Sant’Uffizio spagnolo all’epoca, a Palermo, era Juan López de Cisneros.

L’episodio nelle carceri dello Steri

È certo che, fra le mura dello Steri, l’inquisitore Cisneros accusò Diego di simulare la pazzia per evitare la tortura. Per questo motivo si procedette alla tortura del cavalletto. Il condannato, con dei pesi legati ai piedi, era posizionato su una tavola e poi teso con delle corde che andavano slegando le sue articolazioni sotto atroci sofferenze. Arrivò la confessione tanto desiderata da Cisneros.

Pare che dopo la confessione Diego avesse ancora le catene di ferro ai polsi. Un gesto, quello dell’incatenamento, normalmente non previsto per chi ha confessato ottenendo in qualche modo la grazia, la liberazione. Condotto a “colloquio” davanti l’inquisitore, Cisneros minacciò di torturarlo ulteriormente per l’ulteriore peccato di ribellione commesso.

Fu in quel momento che La Matina, sfinito e infuriato, ruppe le catene e si scagliò sull’inquisitore superando la sbarra che li divideva all’incontro. Così, con la ferraglia fra le mani, colpì con violenza inaudita il Cisneros fracassandogli il cranio. Arrivò la morte dopo giorni di agonia. Diego La Matina resta così nella storia l’unico inquisito al mondo che ha ucciso il proprio inquisitore torturatore.

L’esecuzione e la sfida alla Chiesa

A dodici anni dalla prima condanna, l’inizio della fine, il 17 marzo 1658 arrivò l’autodafé, l’atto di fede, nonché l’esecuzione. Quel giorno di marzo del 1658, era il giorno della «festa» e pioveva. Era passata una lunga notte per Diego, torturato anche psicologicamente dall’insistenza dei teologi che avevano tentato in tutti i modi di “salvargli l’anima” convertendolo e riportandolo sulla retta via.

autodafè fra diego la matina
Esecuzione di Girolamo Savonarola – Filippo Dolciati, Museo di San Marco, Firenze

Per mezzogiorno il cielo era libero e si poté finalmente iniziare la cerimonia. Il popolo era numeroso, i palchi allestiti intorno alla catasta di legna avevano ben nove ordini, tutti riservati agli spettatori illustri. Al piano di sant’Erasmo Diego fu protagonista di un ultimo estremo gesto. Chiese di parlare al vescovo teatino Giuseppe Cicala, e disse: «io muterò sentenza, e fede, ed alla chiesa cattolica mi sottometterò se vita corporale mi darete».

Ma alla risposta negativa che gli ribadiva l’immutabilità della pena, Diego replicò: «a che dunque disse il Profeta “Nolo mortem peccatoris, sed ut magis convertatur, et vivat”? (Non voglio la morte del malvagio, ma piuttosto che si converta e viva)». Il vescovo rispose che il Profeta intendeva “la vita spirituale e non quella corporale”, e fu allora che Fra’ Diego concluse rabbiosamente: «Dunque Dio è ingiusto».

Quel giorno fu descritto come un «grande trionfo»: Diego viene «affogato, abrugiato ed incenerito». Aveva solo trentasette anni. Ma tanti – pure troppi – anni li aveva passati fra le maglie del Sant’Uffizio. Lo storico Vittorio Sciuti Russi dice di Diego: «divenne il modello emblematico della resistenza al potere, la vittima che a esso non si piega, accettandone logica e strumenti, l’uomo in rivolta che uno di quegli strumenti (le catene) infrange e utilizza per spaccare la testa al giudice inquisitore, incarnazione del potere che sconfigge la ragione».

Una storia di ingiustizia divina e terrena

Le parole di Diego La Matina riecheggiano come un estremo appello alla folla, una denuncia della profonda ingiustizia della Chiesa che si proclama misericordiosa e caritatevole e che invece opera contro Dio stesso. Forse Diego non era neanche un ladruncolo, forse era un pericolo sociale per la sicurezza della Chiesa, un sollevatore di problematiche di ingiustizia divina e terrena, un predicatore alternativo che andava eliminato perché affermava valori supremi come la carità e la pietà cristiana.

Fra Diego era solo un uomo che si poneva le domande di giustizia in un’epoca ancora inadatta. O come scrive Sciascia, la colpa di Diego fu quella di porsi «il problema della giustizia nel mondo in un tempo sommamente ingiusto».

Pacienza, pane e tempo si legge sulle mura di una cella dello Steri. Qualcuno ne ha avuta anche troppa e non ha retto alle angherie dell’Inquisizione spagnola, vigliacca e violenta. Sciascia apre infatti la sua opera “Morte dell’inquisitore” rendendo omaggio proprio al Pitré che da quelle iscrizioni era partito per ricostruire questa storia fatta di prigionia, mortificazioni quotidiane, disperazione e sofferenza. Una storia dove le fiamme della rabbia sono di certo sopravvissute a quelle del rogo di piazza.


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