Il Regno (non troppo) Unito torna al voto

Di Maddalena Tomassini – Ancora delle elezioni, ancora una volta la Brexit. È in un’atmosfera di pura divisione e confusione che il Regno Unito torna al voto fra tre giorni. Un voto di cui è difficile prevedere il risultato, e ancora meno immaginarne le conseguenze.

Ma facciamo ordine con qualche dato per comprendere meglio quanto accadrà giovedì. Il Regno Unito è suddiviso in 650 collegi elettorali, ciascuno dei quali eleggerà il proprio rappresentante alla Camera dei Comuni. I 46 milioni di aventi diritto al voto sono chiamati a scegliere fra 3.322 candidati. Questa tornata elettorale segue il voto del giugno 2017, in cui i Conservatori di Theresa May avevano sconfitto i Laburisti assicurandosi 298 seggi.

Due anni e circa sei mesi dopo, il Paese torna al voto. Trenta mesi: abbastanza per comprare a rate un iPhone, stagionare una forma di parmigiano, ma non per raggiungere un accordo sulla Brexit che metta d’accordo né il Regno Unito con l’Unione Europea… né il Regno Unito con il Regno Unito. Riepilogare gli ultimi passaggi richiederebbe una cronistoria particolarmente lunga, perciò chi scrive alza bandiera bianca – come ha fatto lo stesso Paolo Magri, direttore dell’Istituto Italiano di Politica Internazionale, interpellato a Kilimangiaro sull’argomento. «Non servono analisti di politica internazionale, ormai servono psicologi».

Come è naturale che sia, la Brexit è al centro della campagna elettorale in corso.

Il leader dei Conservatori e premier uscente Boris Johnson

Le posizioni dei partiti sono (relativamente) chiare. Da un lato, i Conservatori del premier uscente Boris Johnson sono certi di raggiungere il risultato entro la fine del prossimo gennaio. I Laburisti di Jeremy Corbyn – e con loro il Partito dei Verdi e altri partiti minori – promettono di indire un nuovo referendum. Agli estremi di queste posizioni ci sono l’UKIP, che vuole il Regno Unito fuori dall’Unione Europea subito e senza accordi, e il Partito dei Liberal Democratici che vi si oppone radicalmente. Senza dimenticare il Partito della Brexit di Nigel Farage, sostenitore di accordi commerciali con gli Stati Uniti d’America, il Canada e il Giappone.

È importante tenere a mente un altro fattore, non meno pressante: la posizione di chi è pronto a lasciare il Regno Unito pur di rimanere nell’Unione Europea. Il SNP di Nicola Sturgeon non ha dubbi, la Scozia deve rimanere nella UE e tornare ad esprimersi con un nuovo referendum sulla propria indipendenza. Referendum che al momento Londra non sembrerebbe disposta ad accordare. In Irlanda del Nord, nodo nevralgico della debacle Brexit, il Sinn Féin boccia la Brexit e sogna un referendum per la riunificazione dell’isola sotto la bandiera Irlandese, mentre il Partito unionista (DUP) respinge l’ipotesi di qualsiasi controllo doganale con il resto del Regno Unito (proposta dell’amministrazione May per evitare di risollevare muri e tensioni fra le due parti dell’isola).

Subito dopo la Brexit e poco prima dell’immigrazione e della criminalità, un argomento caro alla propaganda politica e alla stampa britanniche è il National Health Service (NHS). Il sistema sanitario britannico è attualmente in crisi, in carenza di fondi e di personale medico e infermieristico. Proprio il NHS era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna per il Leave: o meglio, il bus rosso della campagna, promotore dello slogan «ogni settimana mandiamo 350 milioni di sterline alla UE. Finanziamo piuttosto il nostro NHS».

Oggi, ciascun partito ha una propria proposta su come risollevare la complessa situazione della sanità britannica, ma non sono queste a occupare spazio nei media britannici. Durante un dibattito televisivo Corbyn ha mostrato un presunto documento segreto, contenente un accordo commerciale con gli USA, in base al quale l’uscente governo sarebbe in trattativa per «vendere il NHS a BigPharma». Accuse che Johnson ha immediatamente respinto.

Ma da dove arriva questo documento, rimasto ignorato per più di un mese su un post di Reddit? Come ogni elezione di questi ultimi anni che si rispetti, sembra esserci un hacker russo dietro la diffusione di questo accordo. Una faccenda grave, ha sentenziato Johnson, su cui vuole andare a fondo. Quella dell’uscente premier è una posizione forte che sarebbe potuta essere anche credibile, se Johnson non dovesse ancora rendere conto del dossier che lo accusa di avere legami con un gruppo di oligarchi russi e secondo cui la longa manus del Cremlino avrebbe interferito con i risultati del referendum per la Brexit del 2016 e nelle successive elezioni del 2017.

Il leader del Labour Party Jeremy Corbyn

Johnson non è l’unico con delle risposte da dare. Il suo avversario, Corbyn, è ancora nel mirino della comunità ebraica del Paese. Il mese scorso, il Gran Rabbino lo ha accusato di aver lasciato crescere l’antisemitismo nel Partito Laburista. Da principio Corbyn ha negato con decisione la presenza di intolleranza nei suoi ranghi, per poi cambiare il tiro e scusarsi – too little, too late.

Il tutto condito dall’ennesimo scandalo a Buckingham Palace: l’affare Jeffrey Epstein, miliardario condannato per molestie sessuali contro minori e conoscenza di vecchia data del principe Andrew. Se non bastasse l’infelice amicizia a gettare fango sul Duca di York, su di lui pesa ora l’accusa di aver abusato di una delle “schiave sessuali” dell’amico, al tempo minorenne.

E qui si chiude la parte “facile”, perché il vero mal di testa comincerà venerdì mattina, risultati elettorali alla mano. È abbastanza certo che nessun partito riuscirà a ottenere i 326 seggi necessari a governare da solo. In base al sondaggio di YouGov del 6 dicembre, i Conservatori avrebbero il 43% delle preferenze, seguiti dai Laburisti con il 33%, i Liberal Democratici con il 13% e i Verdi al 3%.

Quale che sia il governo che emergerà, non avrà vita facile. La Brexit è la stessa bestia nera che ha fagocitato la carriera politica di Theresa May, e il 13 dicembre non diventerà improvvisamente di facile risoluzione. E come dice il detto, «attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo».