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Il contrappasso delle carceri

Di Paolazzurra Polizzotto – Sono giornate molto intense e tese per la giustizia penale italiana, a seguito delle diverse astensioni proclamate dall’Unione Camere penali, a causa della riforma della giustizia operata dal Ministro Alfonso Bonafede in tema di Prescrizione. La riforma è la c.d. “legge spazza-corrotti” che, nel corso dei lavori parlamentari, per effetto di un emendamento presentato dai relatori di maggioranza (Movimento Cinque Stelle), è diventata anche, almeno nelle intenzioni, una legge spazza-prescrizione. Tale legge è destinata ad avere effetti significativi, per quanto limitati a una parte soltanto (circa un quarto) del complessivo numero dei procedimenti che, annualmente, vengono definiti con la declaratoria di prescrizione del reato.

Il punto dolente di questa legge è contenuto nell’art. 1, lett. d), e), f) della legge n. 3 del 2019, disposizioni che entreranno in vigore il 1° gennaio 2020. La legge preannuncia una soluzione ben più radicale: il blocco del corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado (o il decreto di condanna), indipendente dall’esito, di condanna o di assoluzione. È proprio questa, in sintesi e nell’essenza, la novità con la quale i penalisti sono chiamati a confrontarsi: una prescrizione del reato che non potrà più maturare in appello o in cassazione. Questa riforma chiama in causa la funzione della pena e la sua concezione orientata anche alla riabilitazione e al reinserimento sociale del reo. La prescrizione è un principio del nostro stato di diritto molto importante ed è evidente, infatti, come una soluzione del genere – che dovrebbe dispiegare i propri effetti dal gennaio 2020, ma che si spera venga modificata entro la scadenza – sia assolutamente inadeguata ed inadatta a diminuire i tempi dei processi e, anzi, pregiudichi irrimediabilmente la posizione giuridica della persona sottoposta a processo penale. Non è, in altre parole, colpendo un istituto quale la prescrizione, prerogativa necessaria all’interno di uno Stato democratico e di diritto, che va trovata la soluzione in relazione ai tempi della Giustizia.

Per completare il quadro, il ministro Bonafede durante un’intervista al programma Rai Porta a Porta, ha impropriamente dichiarato: «Quando per il reato non si riesce a dimostrare il dolo, e quindi diventa un reato colposo, ha termini di prescrizione molto più bassi» un’affermazione quanto mai errata, che ha spinto il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo a chiedere le dimissioni del Ministro.  La gravità di un’affermazione risiede nel fatto che può indurre l’opinione pubblica a una scorretta e pericolosa visione della distinzione tra dolo e colpa nel nostro ordinamento e creare un grande confusione anche in tema di prescrizione. Infatti, dolo e colpa sono definiti giuridicamente “elementi soggettivi del reato”: un fatto commesso con dolo è commesso intenzionalmente, e l’autore del reato quindi è cosciente delle conseguenze della sua azione; nel fatto commesso con colpa, invece, chi commette il reato non lo fa intenzionalmente e non ha preso coscienza delle conseguenze del suo gesto. Il dolo, secondo il codice penale italiano, rappresenta il criterio tipico di imputazione, mentre la colpa rappresenta l’eccezione, con la conseguenza che di colpa si risponde solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Inoltre, per determinare la prescrizione, in linea generale, si deve fare riferimento alla pena massima prevista per quel reato. Il ministro Bonafede sembra invece confondere reato colposo e reato doloso e sembra suggerire che il reato colposo sia una versione “tenue” del reato doloso, alla quale si ricorre quando non si può dimostrare l’intenzione: sembra cioè che dica che un reato colposo sia in ogni caso un reato in cui non si riesce a dimostrare il dolo.

Ma se volevamo cadere più in basso, ci siamo già riusciti. A coronare queste drammatiche vicende per la giustizia penale italiana, non sono solo gli strafalcioni del ministro Bonafede, ma anche l’approvazione del Decreto Legislativo correttivo del riordino delle carriere delle Forze di Polizia, avente come relatore Emanuele Fiano ed attualmente sottoposto all’esame delle commissioni parlamentari.

La vicenda. Un tema molto delicato e complesso che va avanti da diversi anni, quello del riordino delle carriere delle Forze di Polizia. Questi decreti attuativi sono finalizzati a modificare i compiti e i ruoli che fino ad ora spettavano ai direttori delle carceri e ai comandanti con la qualifica di dirigente. Infatti, attualmente, il direttore del carcere è il Capo gerarchico della struttura e coordina tutte le aree cooperative presenti all’interno degli istituti di pena, ma se venissero approvati questi decreti, il rapporto tra direttore e comandante cambierebbe da gerarchico a funzionale, attribuendo al comandante – che sia sempre primo dirigente –  la gestione della sicurezza all’interno del carcere. Al momento, il direttore del carcere si occupa della gestione contabile, ha competenza circa le sanzioni del richiamo e della ammonizione (art. 40 o.p.) ed a lui spetta l’ultima valutazione nei casi di impiego della forza ed uso dei mezzi di coercizione (art. 41 o.p.). Qualora questi decreti venissero approvati, al direttore del carcere verrebbe sottratto anche il potere disciplinare, con la conseguenza – a tratti paradossale – che il direttore di un istituto di pena, pur restando sempre responsabile della struttura da lui diretta, non solo non è più il capo gerarchico di quell’istituto, ma non può neanche sanzionare chi lavora per lui e magari ha violato una normativa. Dunque, lo spettro del populismo giudiziario è sempre presente.

Tra le proposte contenute all’interno del decreto correttivo del riordino delle carriere delle Forze di Polizia, è stato avanzato il timore che la riforma possa comportare un ritorno al passato, con una “militarizzazione” del carcere. ​Oggi i direttori che gestiscono gli istituti di pena sono dei civili, ricoprendo un ruolo super partes tra le diverse figure che cooperano all’interno degli istituti e garantendo l’equilibrio tra le istanze di sicurezza e la funzione rieducativa della pena. Anche il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (CONAMS) ha espresso non poche perplessità e preoccupazioni in merito a questi decreti correttivi, ed infatti Antonietta Fiorillo, Presidentessa del CONAMS ha dichiarato: «Con una prima lettura in attesa di possibili ed eventuali modifiche che con questa doppia dirigenza che si andrebbe a creare, le difficoltà non sono poche, perché occorre una tale unità d’intenti e la nostra preoccupazione è che tutto questo refluisca in maniera non positiva sull’andamento generale del carcere, sia per quanto riguarda la sicurezza ma anche la parte trattamentale del carcere». Insomma, non sono pochi i problemi che il sistema giudiziario, e anche quello penitenziario, stanno affrontando in questo periodo. Sicuramente questo cambio di gerarchia all’interno degli istituti di pena non contribuisce a migliorare la situazione attuale che versa sempre di più in una fase emergenziale. A prendere parte di questo dramma non è solo l’Italia – che rischia una Torreggiani Bis – ma anche altri paesi europei come Francia, Macedonia, Romania e Ungheria.

La situazione delle carceri europee, è più grave di quanto possiamo immaginare, e non abbiamo bisogno di un cambio di gerarchia con annessa militarizzazione dei direttori e delle direttrici, ma semplicemente di iniziare a fare ordine con gli strumenti che la nostra legge sull’ordinamento penitenziario ci offre. 


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Paolazzurra Polizzotto

Scrivere per me è stata una passione inaspettata, un dono tutto da scoprire. La mia missione è quella di dare una “voce” a chi crede di averla persa.