Fallisce la Cop25, continua la battaglia culturale

Di Daniele Monteleone – I quasi 200 paesi che hanno partecipato alla Conferenza sul clima che si tiene ogni anno hanno espresso l’ennesima “presa di coscienza” del problema climatico senza azioni concrete. La Cop25 di Madrid, quest’anno sotto la presidenza del Cile, è stata definita «un clamoroso fallimento». Le premesse iniziali erano importanti: la mobilitazione globale – quest’anno infiammata dal fenomeno Greta Thunberg – ci ha ricordato con forza pericoli quali il surriscaldamento del pianeta e l’innalzamento dei mari. Più d’ogni altra sveglia, resta la certezza, la promessa della scienza: l’urgenza, ribadita dalla comunità scientifica, di scelte decisive per abbattere le emissioni inquinanti non ammette altro tempo di riflessione e di inazione. Entro questo secolo potremmo raggiungere il “punto di non ritorno”.

Dalle comunicazioni provenienti dalla conferenza – conclusasi con quasi due giorni di ritardo rispetto alla tabella di marcia prestabilita – non viene fuori, innanzi tutto, un testo unico convinto e stringente. Il disaccordo era palpabile: durante le ultime fasi della Cop25 l’attivista svedese Greta Thunberg denunciava già un fallimento in corso, in barba ai richiami della scienza. Tutte le dichiarazioni presentate dalle delegazioni dipingono un quadro frammentato, diviso fra gruppi di paesi irremovibili dalle proprie condizioni. Vengono promessi «sforzi più ambiziosi» per tagliare le emissioni inquinanti ma di convincente resta solo il mezzo milione di persone che hanno protestato per le strade di Madrid.

Non sono state prese decisioni particolarmente rilevanti, ma soprattutto non sono stati stabiliti criteri vincolanti e stringenti che vadano oltre gli Accordi di Parigi del 2015 (anche loro non vincolanti), questi ultimi basati su dati che possiamo definire già “obsoleti”. Nessun compromesso sul meccanismo di “passaggio della quota di gas serra”, meccanismo che consente ai paesi che inquinano di meno di permettere ad altri paesi più inquinanti di riempire la quota totale di inquinamento. Un modo per redistribuire quell’inquinamento “mancato” fra paesi intensamente industrializzati che notoriamente sforano la soglia accettabile.

Un altro accordo mancato è quello per chiarire il “double counting”, ovvero la doppia contabilizzazione di una singola riduzione di emissioni di CO2, fatto possibile nel caso di un’azione condivisa fra due paesi. Di fatto, un modo per falsare i risultati (negativi) ottenuti. In poche parole, ha vinto la “low ambition”, ovvero quella spinta poco lungimirante – eufemisticamente parlando – nell’impegno effettivo contro il cambiamento climatico.

Si chiede a tutti i paesi di presentare entro fine 2020 dei piani nazionali per non superare la soglia fatidica dei 2 gradi sopra la temperatura media terrestre pre-industriale. La quota, secondo gli scienziati, sarebbe da abbassare a 1,5 gradi: il rischio senza un adeguamento dei piani attuali, è quello di arrivare a un aumento di 3,2 gradi entro fine secolo. La soglia che, senza mezzi termini, condanna la Terra alla catastrofe ambientale e climatica. Una discussione rinviata alla Cop26 di Glasgow, nel prossimo novembre.

È un mondo che se la prende comoda e che ignora l’allarme di una comunità scientifica compatta sul tema climatico. L’ennesima Cop fallita ne è dimostrazione lampante. Stati Uniti, Arabia Saudita, Australia e Russia stanno già varcando la soglia d’uscita dagli Accordi di Parigi che, ricordiamolo, avevano invitato i contraenti a impegnarsi sulla decarbonizzazione e sull’investimento nelle energie rinnovabili. Altri paesi dimostratisi restii all’adeguamento a standard ben più stringenti sono stati Brasile, Cina e India, solo gli ultimi due sono autori del 55 per cento di emissioni “climalteranti”. Nel vecchio continente risulta timido persino il tentativo della nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen: qui è stato da poco presentato un Green New Deal da 280 miliardi di euro che si è appena affacciato nel vortice delle negoziazioni e che prevede l’azzeramento delle emissioni inquinanti di CO2 entro il 2050, blocco Est permettendo. Non è difficile prevedere enormi ostacoli vista la forte dipendenza di diversi stati orientali dal carbone. Riportare i livelli di CO2 nell’aria alla quota pre-industriale (300-350 parti per milione) non solo ad oggi necessiterebbe 45 anni – con l’azzeramento immediato di emissioni – ma per di più è globalmente in aumento.

Chi deve pagare il prezzo dell’inquinamento – giunto quasi all’irreversibile – è stato risparmiato anche questa volta. I petrocarbonieri, i veri grandi inquinatori, restano intoccabili. L’inazione stessa ha un prezzo; la stessa attesa del “nulla” (poiché non sono auspicabili miglioramenti automatici dell’atmosfera terrestre) sta danneggiando il nostro futuro prossimo. Inutile insistere nello sciocco tentativo di dividere l’opinione pubblica fra allarmisti e non, poiché basta leggere le riviste scientifiche per appurare la presenza di un verdetto unanime della scienza: tutti gli studiosi del clima sono certi che l’uomo sia «la causa del cambiamento climatico» preoccupante e accelerato nel corso dell’ultimo secolo. E finché un Luca Mercalli, un affermato fisico dell’atmosfera italiano, si scontrerà in televisione con niente poco di meno che Vittorio Feltri, direttore di Libero, non ci sarà speranza neanche per la battaglia culturale per una priorità quale la salvezza della nostra atmosfera. Non esistono inoltre “allarmisti e non”, esistono scienziati e non scienziati.

È una questione di spazi: se a un esperto viene dato lo stesso “tempo televisivo” di un ciarlatano, il pubblico sarà libero di credere a un’idea piuttosto che a un’altra. Solo che è in gioco molto più che la ragione nel dibattito: è la consapevolezza collettiva che potrebbe muovere la politica di un paese che si perde “democratizzando” la scienza, la quale non può essere democratica. Mentre si inseriscono nel panorama autorevoli opinionisti e pseudo-saggi a confondere le responsabilità fra uomo e natura sul clima, ogni anno vengono tirati fuori dal sottosuolo una quantità pari a decine di milioni di barili di petrolio, e uno sguardo al prezzo del greggio può facilmente rispondere al quesito: “molleranno mai un mercato così redditizio?”.

La Cop25 ha messo in chiaro anche un’altra risposta alle richieste di cambiamento concreto nella lotta all’inquinamento: non si vuole cambiare passo, non si vuole cambiare stile di vita, non si vogliono sposare battaglie e riforme ambientaliste importanti che taglino le gambe a carbone e petrolio. Ma c’è ancora chi crede nell’azione.