I pescatori ri Sant’Arasimu

Di Beatrice Raffagnino – Il sole del Mezzogiorno picchia, implacabile, sui lastroni di pietra del molo ri Sant’Arasimu e l’aria, densa di sale, risuona dello sciabordio delle onde e delle strida dei gabbiani in volo.

Seduto su una vecchia sedia di legno, Nino sbroglia pazientemente le reti da pesca; il viso abbronzato è contratto per la concentrazione. Un tempo, mi spiega, l’acqua del mare giungeva quasi a toccare le case della borgata e al posto della pavimentazione e dell’asfalto vi erano dune di soffice sabbia dorata. Sant’Erasmo era, all’epoca, un importante centro economico aggregativo con una proficua attività commerciale. Sorgevano infatti in questa zona, oggi stretta tra la foce del fiume Oreto e il polmone verde del foro italico, campi di tabacco, ortaggi, agrumi, cartiere e si producevano ceramiche e pietre molari. Inoltre venne qui edificata nel 1922 la prima industria ittico-conserviera siciliana, la Coalma, fondata dall’imprenditore Francesco Macaluso e specializzata in pesce azzurro e tonno rosso del Mediterraneo.

Questa, in particolare, metteva in commercio le conserve prodotte proprio all’interno della tonnara di Capicello (detta anche Tonnarazza) grazie alla passione e al duro lavoro dei marinai del molo. La ricchezza dei mari e in generale di questo lembo di terra, dotato di un ottimo approdo, facilmente raggiungibile dalle antiche porte marinare, fu all’origine di aspri scontri tra i pescatori del luogo e le imbarcazioni della kalsa. Quando, infatti, si diede avvio ai lavori per la passeggiata a mare, il porticciolo di quest’ultima venne distrutto e i pescatori si accontentarono  di usufruire di questo nuovo porto offerto dal viceré duca di Laviefuille, nella cala della Tonnarazza o di Sant’Erasmo, nei pressi della casina del principe di Cutò.

Dopo i primi aspri scontri, la convivenza tra le due comunità di pescatori si rivelò tuttavia vantaggiosa per entrambe e le attività crebbero esponenzialmente. A causa del “traffico” delle imbarcazioni all’imboccatura del porto, non mancavano, ovviamente, gli incidenti, soprattutto quando soffiava il vento di Levante che poteva far capovolgere le imbarcazioni. Per questo motivo “calafati” e “mastri d’ ascia” erano sempre all’opera sul bagnasciuga mentre i carrettieri si dedicavano a caricare il pescato o scaricare sulla banchina i cordami.

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Oggi i tonni sono scomparsi nel mare ri Sant’Arasimu e perlopiù si trovano sarde o triglie. Si è persa anche la tradizione della “lampara” per cui una lampada veniva legata alle barche perché attirasse col suo fascio di luce i pesci in superficie e si preferisce utilizzare piuttosto la semplice rete.

Sono venute meno alcune maestranze e attività collegate alla pesca. In passato si usava tingere, ad esempio, le reti di cotone bianco con colori scuri perché si confondessero col fondo e traessero in inganno il pescato. Oggi le reti sono tutte in nylon resistente e già colorate. I pescatori continuano comunque ad uscire in notturna ritornando a riva nella prima mattinata per poi raggiungere il mercato ittico.

Una tradizione, quella portata avanti dalla cooperativa di Sant’Erasmo, che sembra quasi porre un freno all’incuria e all’illegalità del paesaggio circostante. Una sorta di ultima roccaforte, di zoccolo duro di un passato che dovrebbe sempre far parte di noi e che invece troppo spesso dimentichiamo.


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