Reato di tortura: prima conferma dall’inchiesta di San Gimignano
Di Paolazzurra Polizzotto – Primi passi per l’inchiesta sui presunti pestaggi e torture nel carcere di San Gimignano. Lo scorso settembre il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) in seguito alle indagini della procura di Siena aveva sospeso dal lavoro 4 dei 15 agenti di polizia penitenziaria indagati. Mentre è del 10 ottobre l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che conferma il provvedimento di sospensione per l’agente che aveva presentato ricorso, ritenendo che vi siano gravi indizi di colpevolezza.

L’inchiesta ha suscitato clamore non perché siano emerse condizioni di vita sconosciute nelle carceri italiane – a cui purtroppo siamo abituati –, ma perché ad essere contestato dalla procura di Siena è il reato di tortura (art. 613 bis c.p.), approvato dal Parlamento nel luglio 2017. Dopo i casi verificatisi a Varese e Manduria sarebbe la terza applicazione dalla sua approvazione. La situazione, di fatto, resta immutata. È soltanto un primo provvedimento a cui seguirà probabilmente la fase processuale.
Nei giorni immediatamente successivi all’accaduto, a ripercorrere le vicende che hanno portato alle indagini della magistratura è stato proprio il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, durante una conferenza stampa. Sono almeno due gli elementi che vanno evidenziati. Il primo riguarda l’avvio delle indagini: se le presunte torture sono venute alla luce è per merito della stessa polizia penitenziaria che ha condotto le indagini. Contrariamente a quanto si pensi, il corpo di polizia ha dimostrato la capacità di saper individuare ciò che non funziona al proprio interno. Il secondo riguarda l’importanza per l’amministrazione penitenziaria di avere una direzione stabile. È stato infatti durante un periodo di assenza della figura del direttore che i fatti incriminati si sono svolti. Nell’ottobre del 2018 il carcere di San Gimignano essendo privo di direttore aveva “in prestito” la vice direttrice del carcere di Sollicciano, che una o due volte a settimana si recava sul posto.

Risulta evidente che tempo e risorse per gestire una struttura così complessa – 358 detenuti – non siano sufficienti. Provare a risolvere questi problemi, potrebbe probabilmente cambiare le sorti per un adeguato funzionamento di una struttura detentiva.
Le reazioni politiche, come prevedibile, non si sono fatte attendere. Da una parte si è evidenziata la necessità di fare chiarezza il più velocemente possibile e di fare in modo che episodi del genere non si ripetano più. Dall’altra c’è chi invece si è prontamente schierato dalla parte delle forze dell’ordine in maniera acritica, come da copione per una perenne campagna elettorale, senza capire cosa fosse accaduto realmente. A distinguersi, è stato l’ex ministro degli Interni Matteo Salvini che, recatosi direttamente in carcere, ha manifestato un deciso appoggio nei confronti degli uomini e delle donne della Polizia Penitenziaria, ingiustamente accusati.
L’inchiesta di San Gimignano sarà l’occasione per tornare a riflettere sulla reale efficacia che avrà il reato nel nostro ordinamento. Nella scorsa legislatura l’iter di approvazione della norma è stato a dir poco travagliato. Il disegno di legge presentato dal senatore Luigi Manconi nel 2013 ha subito delle modifiche così profonde che del testo originale «non rimane praticamente nulla», come dice lo stesso senatore. A dicembre 2017 anche il Comitato ONU contro la tortura aveva rilevato che nel modo in cui è formulato, il reato si discosta dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ratificata dall’Italia nel 1988, ed invitava le istituzioni ad apportare adeguate modifiche. Considerando le attuali posizioni mantenute dai partiti di governo, però, è difficile prevedere imminenti modifiche.
Foto in copertina da Polizia Penitenziaria