Hong Kong, le proteste viste dagli occhi di chi le vive

Di Federica AgròUn italiano a Hong Kong. Oggi raccontiamo una voce senza dargli un volto. Perché ci sono luoghi in cui raccontare la verità non è un diritto inalienabile, ma restare in silenzio sarebbe un’offesa alla propria morale. A raccontarsi è un ragazzo di cui non diremo il nome, perché ne andrebbe del suo lavoro e della sua incolumità. Quasi trentenne, è toscano ed ha conseguito una laurea cum laude in Relazioni Internazionali. Aveva scelto di lasciare l’Italia per l’Oriente prima ancora di concludere i suoi studi presso l’Università di Milano. Ha uno di quei cervelli che ci converrebbe tenere all’interno dei nostri confini, ma che il nostro Paese non è capace di trattenere.

È un ragazzo d’altri tempi, sembra uscito da una foto in bianco e nero delle proteste degli anni ‘70. Vive stabilmente ad Hong Kong da tre anni, lì ha trovato la sua fortuna e continua a rincorrere la sua libertà. Eco Internazionale, per la rubrica “Stay Human“, ha deciso di intervistarlo per darci una prospettiva diversa, nostrana, di un evento che sembra troppo lontano dalla nostra realtà per avere importanza. Per ricordarci che al mondo c’è chi combatte per diritti che noi diamo per scontati. (Per un quadro completo delle proteste di Hong Kong, rimandiamo all’articolo di Francesco Puleo).

I giorni con l’ombrello. Raccontami dei ragazzi della «rivolta degli ombrelli», come li hai conosciuti e perché ti sei unito a loro? «Ero appena arrivato ad Hong Kong, era il mio primo viaggio lì. Atterrai in città intorno alla metà di Agosto del 2014 e il 31 dello stesso mese ci fu un annuncio sconvolgente per la popolazione, soprattutto quella appartenente al mondo accademico. Pechino dichiarò una riforma del sistema elettorale che avrebbe provocato un controllo del Partito sulla scelta del “Parlamento” e “Governatore” di Hong Kong.

Il mondo accademico cominciò a discutere questa situazione la settimana del 22 settembre, il 26 gli studenti erano in piazza a protestare. Ricordo che stavo tornando a casa da lavoro, come tutte le sere, quando la mia coinquilina mi inviò un messaggio dicendo che qualcosa di strano stava succedendo ad Admiralty davanti alla sede del governo. Mi avvicinai alla zona per curiosità, e vedi una cinquantina di ragazzi cercare di bloccare la strada, poi a loro se ne aggiunsero altri, e ancora. Approcciai un paio di questi ragazzi e ho chiesto loro per cosa stessero protestando, ho capito subito l’importanza di ciò che stavano facendo.

Essendo nato in un paese democratico, mi sono reso conto per la prima volta di come non sia banale non avere il potere sulla scelta di chi governa. Le elezioni democratiche danno alla popolazione una sensazione di autogoverno, una sensazione che qui avevano sempre avuto e che stavano perdendo. Dunque, ho capito che era importante essere lì, anche se non stavano ledendo un mio diritto personale, era mio dovere sostenere la protesta, soprattutto visto il livello di pacificità.

Quando la polizia ci caricava con i lacrimogeni, noi semplicemente ci diradavamo, per poi ritornare uniti una volta finito l’attacco. A nessuno è mai venuto in mente di reagire. Qui la mia solidarietà si è fatta più forte, non era la mia battaglia ma ho combattuto al loro fianco perché li rispettavo profondamente. Nelle settimane successive uscivo da lavoro alle 18, correvo a casa a cambiarmi e poi giù in strada, spesso restavo lì anche a dormire. Il clima che si era creato era estremamente sano, i ragazzi avevano organizzato gruppi di studio, scrivanie e Wi-Fi per preparare gli esami. Era una giusta protesta per una giusta richiesta».

Cosa ti ha spinto a scendere in strada a protestare contro Pechino? «La stessa cosa che mi spinse la prima volta. Tornato ad Hong Kong ero curioso di capire cosa stesse accadendo ed è la piazza la vera fonte di informazione in queste situazioni. Una volta compreso l’intento, e ritrovata la stessa pacificità nella protesta, ho deciso di schierarmi nuovamente al fianco dei cittadini di Hong Kong».

Cosa si prova a far parte di una marea umana? «È un’esperienza forte. La prima marcia contava 500 mila persone, la seconda due milioni. È impressionante fare parte di quella marea, può accadere qualsiasi cosa e tu, semplicemente, non ti puoi muovere. Ma condividere una causa con quella quantità di gente ti fa sentire bene, è la conferma che stai facendo la cosa giusta». Hai mai avuto paura? «Si, essere in mezzo a due milioni di individui significa poter fare la fine del topo in trappola in qualsiasi momento».

Quando i diritti si pretendono con la violenza. Un giorno hai deciso di non unirti più a quelle manifestazioni, cosa è cambiato? «Ci sono stati due eventi che mi hanno portato a decidere di smettere di scendere in piazza, accaduti il 21 Luglio e il 31 Agosto di quest’anno. Il primo, definito successivamente “Yuen Long Attack” ha visto dei manifestanti, di ritorno da una delle proteste (ancora pacifiche), malmenati per 40 minuti da uomini che in seguito sono stati identificati come della Triade. Durante quei 40 minuti tutta la polizia della città non rispondeva alle chiamate e quando lo faceva trovava scuse per non intervenire.

Qualcuno aveva pagato questi uomini pericolosi per fare del male a qualcuno che non aveva mai manifestato violenza prima, in me è scattato un senso di pericolo: d’altronde, se nemmeno la polizia ti può proteggere, dove si potrebbe arrivare? Il secondo evento, il 31 Agosto è stato ancora più preoccupante: nella metropolitana di Prince Edward, la polizia ha picchiato tutti i manifestanti che si trovavano sul treno in modo indiscriminato dopo aver sbarrato l’accesso a giornalisti e a chiunque potesse registrare l’evento.

Da quel momento le proteste non furono più pacifiche, i manifestanti hanno cominciato a rispondere e io non potevo più prendere parte a qualcosa in cui non riuscivo più credere. Sin dall’inizio ero lì per la pace, ora questa non c’era più. Comprendo che la violenza sia stata innescata da questi eventi, ma rispondendo con la violenza i manifestanti si sono inimicati l’opinione del resto della società di Hong Kong».

Pensi che se si fossero mantenute come manifestazioni pacifiche avresti continuato a partecipare? «Qui entra in gioco il motivo ideologico per cui mi sono allontanato dalle proteste. La trasformazione delle manifestazioni sta portando seri danni all’economia della città, la gente smette di venire ad Hong Kong perché ha paura, e questo peggiora l’opinione che la popolazione ha dei protestanti, i quali vengono usati come capro espiatorio per spiegare i malesseri.

Le richieste dei manifestanti ad oggi sono quattro: la creazione di un comitato indipendente che faccia chiarezza sui comportamenti violenti della polizia, che le proteste non vengano classificate come “rivolte”, che le persone arrestate vengano liberate e l’affermazione del suffragio universale. Io condivido tutti i loro punti, i quali sono già stati cassati nella totalità dal Governo, però non posso condividerne i modi. Ripeto, comprendo la rabbia dei manifestanti, ma non posso condividere il loro modo di esprimerla, perché rischiano di perdere totalmente la loro autonomia. Un tempo la Cina aveva bisogno di Hong Kong per far girare l’economia, oggi è Hong Kong ad avere bisogno della Cina per sopravvivere, e queste proteste sono veramente rischiose».

Se tornassi indietro rivivresti tutto allo stesso modo? «Da una parte il mio cuore di giovane studente condivide la protesta così come accadde nel 2014, dall’altra mi chiedo se non sarebbe meglio cercare di aprire un dialogo. Credo che Hong Kong dovrebbe smettere di guardare alla Cina come solo come un nemico, e cercare di considerarlo un contenitore di opportunità per un miglioramento del proprio benessere».

Il 23 ottobre scorso è stato annunciato il ritiro ufficiale della legge sull’estradizione. Cosa credi accadrà adesso? Le proteste si fermeranno? «Che il governo avrebbe ritirato la legge già si sapeva dal 4 Settembre, quindi la risposta è semplice, le proteste continuano. Finché tutte le richieste dei manifestanti (soprattutto la più importante, il suffragio universale) non saranno assecondate, le manifestazioni andranno avanti. Sottolineo che ormai le proteste si sono unite al malcontento generale della popolazione, non sarà certo questo ritiro a fermare quello che ormai si è trasformato in un movimento intestino. Domenica scorsa mi sono trovato per caso nel mezzo della manifestazione e ho fatto altre fotografie, ma non è stato semplice come prima, la gente ora non vuole essere immortalata, il clima si è fatto pericoloso e questa è una consapevolezza generale».


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