Chile despertó: il risveglio latinoamericano

Di Martina Costa – Il Cile, chiamato “il paradiso latinoamericano”, nel giro di meno di due settimane si è fatto protagonista di un’«intifada» latinoamericana, in questo caso non contro gli occupanti israeliani ma contro le logiche neoliberali e anni di politiche economiche opprimenti.

Il casus belli è da rinvenire nell’aumento del costo del biglietto della metropolitana (da 800 a 830 pesos cileni) di Santiago nelle ore di punta. Già dai primi di ottobre erano stati registrati i primi ingressi di massa senza pagare il biglietto da parte di studenti che lamentavano anche mancanze di risorse nel settore educativo. E non sono certo i 30 centesimi di aumento del biglietto della metro – arrivato allo stesso livello di quello londinese – il motivo per cui si protesta, ma, presumibilmente, gli ultimi 30 anni di governo.

Sebbene il Cile si vanti di essere il paese più ricco del Sudamerica, stabile economicamente e politicamente, è in realtà anche il più ineguale. Il Cile è infatti in alto fra i più economicamente liberi del mondo e anche nella classifica delle diseguaglianze. L’aumento del biglietto della metro nelle ore di punta, cioè quando più persone utilizzano il mezzo pubblico, ha un significato ancora più ampio. Risponde a esclusive logiche di mercato, volte alla massimizzazione dei profitti a scapito della popolazione. Nel modello neoliberista di Pinochet, liberalizzazione finanziaria e investimenti esteri divennero i capisaldi di una nuova formula economica cilena. Il Cile ha adottato un sistema di progressiva privatizzazione del settore pubblico, affidando a poche aziende il controllo del mercato e la gestione di sanità, istruzione e pensioni. Nel 1990, con il ritorno della democrazia in Cile, il modello neoliberista è continuato.

Sebbene i livelli di povertà e di mortalità infantile siano diminuiti, a questi non sono seguiti standard più alti nella qualità di vita o meno diseguaglianza sociale. Sono in pochi a poter godere dei benefici di una delle economie più robuste dell’America latina. L’aumento del costo del biglietto della metro si somma all’aumento del costo della luce e dell’acqua, oltre alla crisi del sistema pubblico sanitario. Secondo uno studio elaborato dalla Commissione economica dell’America latina e del Caribe, l’1 per cento del paese detiene il 25 per cento della ricchezza nazionale, mentre il 50 per cento delle famiglie a basso reddito ha avuto accesso solo al 2,1 per cento della ricchezza netta del paese.

In molti lamentano «Viviamo come latinoamericani con un costo della vita europeo», un posto comodo se appartieni alla minoranza della classe sociale più alta. Quindi mentre il costo della vita aumenta esponenzialmente, adattandosi ai redditi di una piccola fascia della popolazione benestante protetta dall’economia neoliberista, i salari minimi rimangono fissati per legge a 301mila pesos cileni (370 euro), che non risultano sufficienti per la sussistenza minima e per poter provvedere alle spese di prima necessità (affitti, utenze, nutrizione, mezzi di trasporto, educazione e sanità).

Non è solo la distribuzione della ricchezza a creare forti diseguaglianze sociali ma anche la diversa fornitura di servizi di base – come scuole, trasporti e spazi pubblici – tra quartieri ricchi e poveri. Inoltre l’impossibilità economica di poter accedere a tutti quei servizi privati ha un chiaro impatto sulla qualità di vita dei cileni. Quella cilena è una società che ha lamentato per decenni disuguaglianze economiche e sociali, ignorate dai suoi leader.

Sebbene dopo qualche giorno dall’inizio delle proteste, il Presidente abbia annunciato la sospensione della legge sul rincaro del prezzo dei biglietti, le proteste non sono terminate ed anzi pare abbiano coinvolto ancora più persone. È allora che le piazze si sono trasformate in fiumi in piena, con cori, balli, musica e arte. Alle diverse manifestazioni pacifiche si sono accompagnati casi di incendi, saccheggi e altri atti di sabotaggio e vandalismo.

Dal 18 ottobre sono cominciate proteste violente che hanno messo in seria difficoltà il presidente cileno Sebastián Piñera e la sua amministrazione, evidentemente impreparati a gestire flotte umane di questa portata. La decisione del governo di militarizzare la crisi ha sollevato gli animi di tutta la società, unita più di prima contro un “nemico comune”.

La risposta governativa è stata da subito emergenziale. In conferenza stampa il presidente Piñera dichiara «siamo in guerra», e al fine di garantire sicurezza e ordine pubblico, applica lo stato d’emergenza e approva il coprifuoco a Santiago e in altre città. A polizia ed esercito vengono garantiti poteri straordinari e garanzie. E lì che comincia la carneficina. La polizia ha risposto con inumana violenza, con cariche e gas lacrimogeni che sin dalle prime ore hanno provocato numerosi feriti. Le proteste sono state segnate da una forte repressione della polizia: fra le persone colpite si contano quelle soffocate con gas lacrimogeni, fucilate, investite, torturate. Scene di arresti condotti con grande brutalità, gente inerme presa a colpi di manganelli, piombini di gomma sparati ad altezza uomo. Mezzi blindati e uomini armati in strada ricordano gli anni passati sotto il regime di Pinochet. La repressione della polizia fa il giro del mondo e l’Onu decide di iniziare a monitorare attentamente i rapporti sulle violazioni dei diritti umani nel contesto delle proteste. Il governo cileno ha confermato la morte di almeno 18 persone, tra cui un bambino, mentre 2.643 sarebbero i feriti. La tortura e la violenza continua anche oltre. Tra i quasi 3000 arresti, diverse sono state le denunce di violenza sessuale e abuso di potere da parte delle forze di sicurezza nei confronti delle donne detenute.

Sebbene la protesta si sia sviluppata lentamente e in modo graduale, la risposta del governo è risultata tardiva e repressiva. La repressione ha esacerbato ulteriormente la protesta e dopo un’altra settimana di mobilitazioni sociali il Presidente ha chiesto scusa ai cileni, riconoscendo una grave “situazione di disuguaglianze e abusi” e annunciando altresì un’ampia agenda di riforme sociali.

Le riforme annunciate non hanno comunque convinto i manifestanti a fermare le proteste e proprio venerdì in Plaza Italia a Santiago circa un milione di cileni hanno sfidato il coprifuoco riunendosi in una manifestazione che vanta essere “la Marcha más grande de Cile”. Non potendo ignorare l’entità della partecipazione, il presidente Piñera ha annunciato anche un rimpasto di governo e la sospensione del coprifuoco, affermando: «Abbiamo tutti recepito il messaggio». È di questo lunedì la nomina dei nuovi ministri, ora che «il Cile è cambiato e anche il governo deve cambiare».

Sebbene lo stato di emergenza nell’intero paese si sia concluso domenica, proteste e incendi continuano anche il primo giorno senza militari nelle strade. Al grido di «El pueblo unido jamás será vencido», migliaia di persone continuano a mobilitarsi per l’attuazione di profonde riforme sociali. La popolazione richiede una distribuzione della ricchezza più equa, una migliore salute, istruzione e pensioni accessibili per tutti. Nessun partito, negli ultimi 30 anni, è riuscito a diagnosticare la rabbia di milioni di cileni, stanchi di un modello economico opprimente. La popolazione per questo richiede riforme strutturali che possano avere un impatto nel lungo periodo. Il millantato “miracolo economico” che ha fatto grande il Cile in America del sud è evidentemente stato miracoloso per pochi, lasciando la maggioranza della popolazione abbandonata e abusata.

La passività opprimente di società alienate risponde anch’essa alle logiche neoliberali del nostro millennio, logiche che vogliono società divise, popolazioni in lotta tra loro e individui disinteressati al bene comune. Il Cile è la dimostrazione più evidente che i movimenti dal basso e la mobilitazione sociale sono ancora strumenti efficaci per combattere, resistere ed esistere. E allora, Cile, «hasta la victoria siempre!».


Foto in copertina da Time – Getty Images

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