La “B” in LGBT non è muta

Di Maddalena Tomassini – No, la “B” in LGBT non è muta. Non siamo invisibili. Non stiamo mentendo, non lo facciamo per “moda”, e non siamo indecisi e tanto meno confusi. Siamo qui, ci siamo sempre stati. È il messaggio che anima la Giornata della Visibilità Bisessuale che si celebra ormai dal 1999 ogni 23 settembre, mese interamente dedicato alla Consapevolezza Bisessuale, scelto dagli organizzatori in omaggio a Freddie Mercury, icona bi.

Ma serve, una giornata, una settimana, un intero mese, dedicato alla bisessualità? La risposta è semplice: sì, serve. Serve perché è altamente probabile che nella vostra vita abbiate incontrato, o abbiate vicino, una persona bisessuale che ha lasciato che la società cancellasse la sua identità sessuale perché non conforme a una visione binaria. Neanche fosse il morso di un ragno radioattivo, la “cancellazione della bisessualità” è l’origin story del super potere dei bi: l’invisibilità.

La bifobia, come la bisessualità, esiste. E ferisce. Diversi studi in Australia, Inghilterra, Stati Uniti, rivelano che i bisessuali sono più a rischio di problemi di natura psicologica rispetto ai loro pari eterosessuali e omosessuali. Secondo lo studio “Who I Am” pubblicato sull’Australian Journal of General Practice lo scorso marzo, il 58,5 per cento dei 2651 bisessuali intervistati soffriva di un alto o molto alto disagio psicologico.

Il 58,7 per cento ha avuto episodi di autolesionismo. Il 77,6 per cento ha pensato almeno una volta al suicidio. Uno su quattro (il 27,8 per cento) ci ha provato. Dati del Bisexual Resource Center, condivisi nel 2017 da Human Rights Campaign, rivelano che circa il 40 per cento dei bisessuali ha pensato o ha tentato il suicidio, contro il 25 degli omosessuali. Secondo una ricerca condotta negli USA fra il 2015 e il 2017 e diffusa dall’associazione Trevor Project, il 66 per cento dei giovani bisessuali si è sentito “triste e senza speranza” per due o più settimane di fila, in contrasto al 27 per cento dei coetanei etero e al 49 per cento gay.

Troppo gay per gli etero e troppo etero per i gay. Non abbastanza etero. Non abbastanza gay. La bifobia non è un problema esclusivamente “esterno”, non proviene (solo) dall’idealtipo di omofobo conservatore che assomiglia a Lorenzo Fontana o Simone Pillon. La bifobia è presente anche all’interno della comunità LGBT. La bifobia è così radicata nella società, cementificata da anni di cancellazione, da avere una solida presa anche nella testa dei bisessuali stessi, che impegnano molto più tempo a riconoscere e accettare la propria identità sessuale e che, spesso, si tengono lontano dagli spazi queer per paura di essere respinti.

Non è difficile capire da dove viene la mancata presa di consapevolezza riguardo la bisessualità. Basta accendere la tv. «Qual è la differenza fra persone bisessuali e unicorni? Gli unicorni posso vederli nei film e in tv» scherza un utente di Tumblr. «Inoltre – aggiunge un altro – gli unicorni in tv vengono definiti unicorni, non “cavalli a cui non piacciono le etichette”».

Non sarebbe male se i media usassero la b-word, possibilmente senza stereotipici bifobici. Uno degli esempi più lampanti di bifobia è il tanto decantato Sex and the City. Quando il personaggio principale, Carrie, scopre che il ragazzo con cui sta uscendo è bisessuale, questo apre a due minuti di pura concentrata bifobia. Non era facile infilare in così poco tempo l’intera collezione degli stereotipi sulla bisessualità, ma ci sono riusciti: non esiste, è una “sosta prima di Gaytown”, tutti gli uomini alla fine finiscono con altri uomini e tutte le donna – sorpresa! – con uomini. E ancora: “prendete una posizione!”, e sono “avidi doppiogiochisti”. La cosa è ancora più grave considerando che Carrie dovrebbe essere un’opinionista esperta di sesso.

Anche adesso, nel mondo dell’intrattenimento sono pochi i personaggi dichiaratamente bisessuali, e troppo spesso – qualora ce ne siano – vedono la loro sessualità cancellata nel momento in cui entrano in una relazione con un personaggio gay o etero.

Quindi sì, serve parlare di bisessualità. Serve parlarne perché il dialogo fa bene alla comunità LGBTQIA, la rende più forte e coesa, e che piaccia o meno agli omofobi, ai transfobici e ai bifobici, la comunità queer fa parte della società. Se ognuno è libero di vivere la propria identità nel rispetto dell’altro, allora l’intera collettività non può che beneficiarne. Una società sana non può vivere di discriminazione e stereotipi come quelli che gravano sulla comunità LGBTQIA. Ed è necessario che se ne parli. Non è solo la “B” a non essere muta e nessuna di esse lo è. Ognuna conta, ognuna rappresenta una comunità fatta di persone: ed è di persone che è necessario parlare.


Foto in copertina da mic.com