Atto di guerra?

Di Francesco Puleo – L’attacco di sabato scorso agli impianti petroliferi di Aramco, l’azienda statale saudita di idrocarburi, ha ulteriormente intensificato l’escalation che da tempo attraversa il medio oriente e interessa in particolare le due più grandi potenze regionali: Arabia Saudita e Iran. L’episodio si è verificato nel contesto di una guerra combattuta per procura in Yemen e di una politica di “massima pressione” sull’Iran da parte degli Stati Uniti, inaugurata dalla decisione di Trump del maggio 2018 di ritirarsi dall’accordo sul nucleare del 2015 e di intensificare progressivamente le sanzioni economiche (dirette ed extraterritoriali) ai danni del regime iraniano.

Nello specifico, l’attacco è avvenuto nell’est dell’Arabia Saudita, a Khurais e Abqaiq, e ha provocato un danno non trascurabile alla produzione di greggio, con conseguenze immediate sul prezzo del petrolio e sull’economia globale. Sebbene all’inizio l’entità del danno sembrasse ben più rilevante, l’offerta di greggio è tornata stabile e il prezzo al barile è tornato ai livelli precedenti all’attacco, grazie all’intervento tempestivo degli Stati Uniti sul mercato mondiale. I danni alle strutture e agli impianti sono invece più incerti ma in base alle ultime dichiarazioni delle autorità saudite, nel giro di poche settimane la produzione dovrebbe tornare a pieno regime.

Diverso è invece il quadro geopolitico, con tutte le incertezze che queste comportano in termini di stabilità e di aspettative a medio termine sull’andamento dei prezzi. L’attacco infatti è stato prontamente rivendicato dai ribelli huthi, che dal 2015 combattono una guerra senza quartiere contro le forze governative appoggiate dai sauditi ma con il sostegno militare e logistico dell’Iran. Le giustificazioni addotte sono due: da un lato, un messaggio rivolto agli Stati Uniti e ai loro alleati e alla loro politica di “destabilizzazione” della regione, dall’altro una risposta agli attacchi alle basi pro-Iran in Siria.

Le rivendicazioni degli huthi sono state considerate poco credibili da tutti tranne che dagli alleati iraniani. Mike Pompeo, segretario di stato americano, ha subito puntato il dito contro l’Iran. Più cauto invece il presidente Donald Trump, che pur avendo fatto allusioni ed espresso i suoi sospetti sulla matrice iraniana dell’attacco non ha fatto dichiarazioni esplicite fino a ieri, quando ha annunciato via Twitter l’imminente risposta diplomatica all’attacco iraniano: «Ho dato istruzioni al Ministro del Tesoro di aumentare le sanzioni sull’Iran», ha affermato ieri.

Donald Trump e il principe saudita Mohammed Bin Salman

Da un punto di vista strettamente militare, la responsabilità iraniana non può essere esclusa. Specie dopo la conferenza stampa di ieri pomeriggio in Arabia saudita, in cui il portavoce della difesa Turki al-Maliki ha mostrato ai giornalisti i rottami dei droni e dei missili che sarebbero stati utilizzati nel raid di sabato scorso. Droni e missili di marca iraniana arrivati da nord, non da sud (come sostengono gli huthi). Secca la smentita del presidente iraniano Hassan Rouhani.

Le indagini delle autorità saudite sono ancora in corso, dunque non si ha ancora la certezza che sia stato l’Iran a ordinare l’attacco. Non è invece un mistero il sostegno militare iraniano ai ribelli Huthi, che ha permesso loro di attaccare quasi giornalmente il territorio saudita, danneggiando infrastrutture civili ed energetiche.

Gli huthi avrebbero tra l’altro più di un motivo per attaccare. Come ha affermato Eleonora Ardemagni (ISPI), ai primi di settembre gli Stati Uniti hanno confermato pubblicamente di aver avviato colloqui per risolvere il conflitto in Yemen: lo scenario è quello di una mediazione statunitense tra sauditi e huthi. E la ratio dell’attacco di sabato, in un contesto di attacchi quotidiani su tutto il territorio yemenita, potrebbe essere esattamente quella di sedersi al tavolo della trattative da una posizione di forza.

Lo stesso potrebbe valere per l’Iran, il cui obiettivo principale resta l’uscita dal regime delle sanzioni americane, in particolare sull’esportazione del petrolio. A giudicare dalle reazioni delle ultime ore, la strategia iraniana non avrebbe funzionato, dal momento che gli Stati Uniti non avrebbero ancora consegnato i visti ai rappresentanti diplomatici dell’Iran per l’incontro all’ONU previsto per il 24 settembre.

Lo scenario è dunque quello di una crescente instabilità. L’ipotesi di un intervento militare sarebbe ovviamente lo scenario peggiore e, considerati gli interessi in gioco, il meno probabile. Se Trump volesse attaccare l’Iran, in sostegno di un attacco saudita o autonomamente, avrebbe comunque bisogno dell’approvazione del Congresso. E in questo momento non avrebbe i numeri, senza considerare l’impatto nefasto che un intervento militare avrebbe in termini di consenso, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del 2020.

L’Iran, dal canto suo, ha dimostrato più volte di essere pronto a difendersi dagli attacchi e dalle provocazioni. Dunque, molto dipenderà dalle scelte dell’Arabia Saudita e del principe Mohammed Bin Salman: l’attacco di sabato ha rappresentato un duro colpo al programma di privatizzazione della Aramco, volto a finanziare l’ambizioso progetto di rinnovamento economico e geopolitico “Arabia Vision 2030”. Sicuramente, la tensione resterà alta.