Israele, fumata nera per Netanyahu?

Di Maddalena Tomassini – In base alle ultime proiezioni, con il 92% dei voti contati, il partito centrista Bianco e Blu di Benny Gantz e il Likud di Netanyahu sarebbero testa a testa con 32 seggi ciascuno. Segue come terza forza politica la Lista Araba Unita con 12 seggi, due in più rispetto ad aprile: gli arabi di Israele, che nelle ultime elezioni di aprile avevano disertato le urne per protestare contro i partiti che si erano presentati divisi, ieri sono tornati al voto contro Netanyahu.

Alla minoranza araba non è certo andata giù l’idea che Bibi voglia annettere ad Israele gli insediamenti che si trovano nella Valle del Giordano e a nord del Mar Morto. Ottimo risultato anche per Yisrael Beiteinu, dell’alleato-ora-avversario di Bibi, Avigdor Lieberman: nove seggi contro i cinque di aprile. Un eventuale governo potrà difficilmente fare a meno della sua alleanza. Il partito ultraortodosso sefardita Shas avrebbe ottenuto nove seggi, mentre quello ashkenazita Giudaismo Unito nella Torah si fermerebbe a otto. Yamina, il partito dall’ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked avrebbe invece ottenuto sette seggi.

L’Unione Democratica dell’ex premier Ehud Barak, di recente creazione, avrebbe ottenuto cinque seggi. Si conferma il periodo nero del Partito Laburista, fermo a sei seggi. Niente da fare per il partito di estrema destra Otzma Yehudit, alleato di Netanyahu, che non supera la barriera del 3,25% e resta fuori dalla Knesset.

Tuttavia, questi dati potrebbero essere ribaltati nelle prossime ore, mentre lo scrutinio delle schede procede lentamente. Alle 7 del mattino Israeliane – ora in cui si scrive – lo spoglio è fermo al 37% e il sito del Comitato Elettorale dà dati incompleti, segnalando la Lista Unita come al di sotto della soglia di sbarramento, poiché le schede delle sezioni a maggioranza araba non sono ancora state scrutinate.

Difficile prevedere che tipo di governo potrebbe emergere. Stanotte Lieberman ha annunciato che l’unica opzione possibile è un governo di unità nazionale con il Likud e il Partito Bianco e Blu, coerentemente con la sua linea dura contro gli ultraortodossi, alleati del premier uscente. Netanyahu, dal canto suo, fa appello per un governo in chiave antiaraba.

«Non ci sarà e non ci può essere un governo sostenuto dai partiti arabi anti-sionisti che negano l’esistenza di Israele come uno Stato ebraico e democratico, che glorificano i terroristi assestati di sangue che uccidono i nostri soldati» ha affermato Netanyahu, riporta Haaretz. Per converso, sembra che Benny Gantz abbia telefonato al leader della Lista araba unita Ayman Odeh, e che i due abbiano concordato di incontrarsi per esaminare assieme l’esito delle elezioni.

In ogni caso, non è fantasioso immaginare un prossimo futuro in cui Benjamin Netanyahu non sia primo ministro di Israele. Sorge quindi il dubbio di cosa ne sarà degli insediamenti, la cui annessione è fortemente voluta dall’estrema destra. Più concreta sarebbe la prospettiva di un imminente processo per frode, abuso di fiducia e corruzione a carico di Netanyahu, che senza un governo a proteggerlo ha ben poche speranze di appellarsi a una legge d’immunità.

Sul primo punto vale la pena soffermarsi, quale sia il governo che andrà a formarsi (se si formerà) nei prossimi giorni. Durante l’ultima settimana di campagna elettorale l’annuncio di Netanyahu ha tenuto il banco del dibattito politico – non a sorpresa, considerandone l’entità e il fatto che al primo ne è seguito un secondo, con cui il premier uscente ha alzato il tiro e promesso di mettere la bandiera israeliana anche sull’area di Hebron.

Perché la Valle del Giordano è importante? Oltre a essere fra le aree più verdi dei territori, copre da sola circa un terzo della Cisgiordania. Annettere gli insediamenti, illegali per il diritto internazionale e sottoposti a una sovranità non riconosciuta dalla comunità internazionale, sarebbe l’ennesimo schiaffo alla sempre meno credibile soluzione dei due Stati.

«Quello che deve essere chiaro» spiega Adam Keller, portavoce dell’ong per la pace Gush Shalom «è che non vogliono annettere tutto, ma solo le aree in cui non ci sono arabi. Non vogliono trovarsi nella situazione di dover riconoscere diritti civili agli arabi, sarebbe la fine dello ‘Stato ebraico’».

Annettere la Valle del Giordano significherebbe di fatto isolare i palestinesi che vivono in Cisgiordania, bloccando loro l’accesso al mondo esterno. Basta guardare la mappa interattiva creata dall’ong israeliana B’tselem per farsi un’idea: l’Area C della Cisgiordania, quella che entrerebbe in maniera ufficiale nella cartina israeliana, e che ora è sotto il controllo militare di Israele, si estende per tutto il confine con la Giordania. Un eventuale Stato palestinese confinerebbe esclusivamente con Israele. «La Cisgiordania diventerebbe come Gaza» commenta Keller. Isolata, più di quanto non lo sia già.

Secondo l’attivista, molti israeliani vogliono mantenere il controllo dei territori occupati. «Che vogliano l’annessione ufficiale o no è nei fatti un ‘dettaglio tecnico’, sebbene sia un dettaglio molto importante. Israele ha il controllo di questi territori ormai da 52 anni» sottolinea Keller. «In molti si chiedono: è temporaneo? Quanto dura ‘temporaneo’? Si arriverà a 150 anni e si dirà che è ancora ‘temporaneo’? Ci sono pressioni per cambiamenti definitivi, ma il problema più grande è che la maggioranza delle persone in Israele non crede che la pace sia possibile».

«Inoltre, le generazioni più giovani non sanno come era la situazione prima del 1967, considerano la condizione attuale, così come è, come un dato di fatto» continua Keller. «In definitiva, il punto è che gli israeliani non lasceranno questi territori di loro volontà: dovrebbe esserci una pressione dall’esterno, cosa che non accadrà finché Trump sarà presidente degli Stati Uniti. La nostra speranza è che un candidato più progressista – come Bernie Sanders – possa vincere l’anno prossimo. In quel caso potremmo sperare in qualche miglioramento concreto, anche per il Medio Oriente».

Nei fatti, Trump si è dimostrato un valido alleato di Netanyahu, a partire dal riconoscimento di Gerusalemme – e quindi anche la zona orientale occupata – come capitale di Israele. Al momento, però, sembra che la sua benevolenza non si spinga al punto di riconoscere una simile annessione, tanto che alcuni ipotizzano che questa sarebbe la ragione dietro l’espulsione di John Bolton, che ne era invece favorevole. In ogni caso per la posizione della Casa Bianca bisognerà attendere il nuovo governo israeliano e la rivelazione, successiva, del “Grande piano per la pace” di Trump.

Va ricordato che nello scacchiere internazionale non c’è solo il gigante americano, per quanto sia senza dubbio la pedina più importante. «L’Europa ha i suoi problemi, l’Unione Europea non è in buono stato, ma penso che sia molto importante per l’Italia e per l’Europa prestare attenzione a quello che accade in Israele e Palestina» conclude Keller «non solo per ragioni altruistiche, perché i palestinesi meritano di meglio, ma perché i problemi in Medio Oriente influenzeranno inevitabilmente anche l’Europa. Per la loro stessa sicurezza, gli europei dovrebbero fare attenzione a quello che accade in Medio Oriente».