Una crisi in vacanza

Di Francesco Puleo – A pochi giorni dall’inizio della crisi di governo, la situazione politica del paese è drammaticamente incerta. Difficile prevedere in che modo si risolverà: tra le dichiarazioni roboanti di Matteo Salvini che chiede elezioni anticipate e “pieni poteri”, il tradimento denunciato dal Movimento Cinque Stelle e il ritorno annunciato di Matteo Renzi sulla scena politica con annessa spaccatura del PD, le uniche certezze che abbiamo sono due: le regole sancite dalla Costituzione e gli impegni con l’Europa.

Le regole sono chiare. Al netto dei sondaggi che darebbero la Lega di Salvini oltre il 35 percento e ben oltre il 40 percento in coalizione con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, l’Italia rimane (salvo imprevisti) una democrazia parlamentare e costituzionale. In base alla Costituzione non bastano un comizio né un tweet per andare a elezioni anticipate: è il presidente della Repubblica a decidere come e quando sciogliere le camere e indire nuove elezioni.

E in ogni caso non può farlo prima che il presidente del Consiglio sia sfiduciato o rassegni le sue dimissioni. Giuseppe Conte, dal canto suo, ha deciso di spostare la crisi in parlamento, dopo la conferenza stampa dell’8 agosto in cui ha attaccato senza mezzi termini la scelta di Salvini di staccare la spina al governo. Nei prossimi giorni toccherà dunque alle camere stabilire i modi e i tempi della crisi: le polemiche delle ultime ore sul calendario dei lavori rispecchiano il conflitto tra i due schieramenti, quello a favore e quello contro Salvini e le elezioni anticipate.

Nel caso di dimissioni del presidente Conte, in seguito alla mozione di sfiducia presentata dalla Lega o per altre ragioni di opportunità politica, toccherebbe al Presidente della Repubblica Mattarella sondare il terreno per verificare l’esistenza di maggioranze alternative. Uno scenario che diventa sempre più probabile con il passare dei giorni dopo le dichiarazioni di domenica di Matteo Renzi e Beppe Grillo.

Il primo, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha aperto ad un governo di transizione per salvare i conti pubblici, dal momento che in caso di elezioni anticipate è molto probabile che scattino automaticamente le cosiddette clausole di salvaguardia e con esse un aumento dell’IVA. Il secondo, in un intervento sul suo blog, si è espresso contro la richiesta di Salvini di elezioni imminenti, bollate come una «fuga» dalle responsabilità di governo.

Nessuno si è espresso esplicitamente a favore di un’alleanza ma in questi ultimi giorni sia Matteo Renzi che Luigi di Maio hanno posto delle condizioni per un ipotetico governo istituzionale. Di Maio in particolare ha chiesto ripetutamente un voto sulla riforma che prevede il taglio dei parlamentari, ipotesi che implicherebbe un rinvio di almeno sei mesi delle elezioni, sia per i tempi tecnici necessari alla formazione dei nuovi collegi elettorali sia per dare la possibilità ai cittadini di esprimersi con un referendum, come prevede la Costituzione in questi casi.

Non mancano i dubbi e i malumori all’interno delle rispettive formazioni politiche. Sebbene Renzi si sia mosso da leader, la guida del suo partito rimane nelle mani di Zingaretti. Il segretario del PD ha sin da subito escluso qualsiasi ipotesi di governo di transizione, raccogliendo la sfida di Salvini.

Come da tradizione, la sinistra è spaccata: da un lato Zingaretti e altri big del partito (primo fra tutti Carlo Calenda) sostengono che fare un governo istituzionale equivalga a un suicidio politico che consegnerebbe il paese nelle mani della destra alle prossime elezioni, dall’altro Renzi e i suoi seguaci promuovono l’iniziativa, dopo più di un anno passato a insultare i Cinque Stelle e ad escludere categoricamente qualsiasi alleanza.

Sullo sfondo, ci sono le poltrone: nuove elezioni garantirebbero un numero maggiore di seggi ai seguaci di Zingaretti, mentre al momento sono in maggioranza nelle mani dei renziani. A ciò si aggiungono le voci secondo cui Matteo Renzi sarebbe pronto a costruire un nuovo partito di centro nei prossimi mesi, sul modello di En Marche del presidente francese Emmanuel Macron.

Al netto di tutto ciò, resta il fatto che un ipotetico governo PD-Cinque Stelle avrebbe bisogno di numeri. Se il PD non appoggiasse in modo compatto questa ipotesi, nella variante di un governo istituzionale o in quella di un accordo di legislatura più duraturo (come proposto nelle ultime ore da alcuni big del partito come Franceschini e Martina), sia alla Camera che al Senato sarebbe indispensabile il sostegno di almeno una parte dei deputati e dei senatori di Forza Italia: uno scenario ribattezzato “coalizione Ursula”, dal nome dei partiti che hanno appoggiato l’elezione di Ursula Von der Leyen alla Commissione Europea.

E sebbene Silvio Berlusconi abbia accolto l’invito di Salvini a formare una nuova alleanza di centrodestra per evitare l’accordo tra PD e Cinque Stelle, il partito del cavaliere ha perso molti punti rispetto alle elezioni del 2018: molti dei parlamentari eletti nelle file di Forza Italia potrebbero così scegliere di concludere questa legislatura piuttosto che correre il rischio di non essere rieletti.

Se nessuna di queste ipotesi dovesse diventare realtà e Mattarella fosse costretto a sciogliere le camere, non si potrebbe comunque andare al voto prima della fine di ottobre. La Costituzione prevede infatti che dal momento dello scioglimento delle Camere debbano passare almeno 60 giorni. Ciò significa che se anche si riuscissero a svolgere tutti i passaggi necessari in parlamento (sfiducia a Conte, dimissioni, mandato esplorativo ai partiti, scioglimento delle camere e indizione delle elezioni), dovremmo aspettare due mesi solo per rinnovare Camera e Senato.

A ciò si aggiungerebbero i tempi necessari all’insediamento delle camere e del nuovo governo: arriveremmo così a novembre, ovvero nel pieno della sessione di bilancio. In un mese e mezzo, e al netto del ritardo con l’Europa (sia per la presentazione della Nota di aggiornamento del DEF a settembre che per quella del Documento programmatico di Bilancio entro il 15 ottobre), il nuovo governo dovrebbe varare una manovra di bilancio triennale.

L’alternativa sarebbe il cosiddetto “bilancio provvisorio” e l’attivazione delle clausole di salvaguardia di cui abbiamo parlato sopra: in soldoni, più tasse e ulteriore peggioramento di un’economia già in crisi. Senza contare le conseguenze in termini di aumento dello spread che una situazione di incertezza simile comporterebbe sui conti pubblici.

In conclusione, gli scenari futuri della crisi di governo sono fondamentalmente due: un governo di transizione dalla durata incerta che faccia una manovra da 23 miliardi per salvare i conti e riavvicini l’Italia all’Europa (e nomini il nuovo commissario europeo) o un nuovo governo di destra guidato dalla Lega, isolato in Europa e più simile a quello di Putin e Orbàn che a una democrazia liberale.

In altre parole, o Salvini va all’opposizione o governa per i prossimi cinque anni, nominando tra l’altro il prossimo presidente della Repubblica nel 2022. A sentire i sondaggisti e i politologi da bar, il leader della Lega sembra invincibile. Siamo sicuri però che stando all’opposizione per i prossimi (quattro?) anni il suo consenso e il suo peso politico, in Italia e all’estero, non calerebbero lentamente e inesorabilmente?


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