Nella Libia dei lager muore l’umanità

Di Clara Geraci – Se oggi il naufragio dell’umanità avesse confini, sarebbero le mura e i fili spinati dei campi di raccolta di migranti in Libia. Se avesse un volto, sarebbe quello delle migliaia di dannati intrappolati nell’orrore, al di là del Mediterraneo. «Quello che ho visto in Libia lo descriverei come l’incarnazione della crudeltà umana nel suo estremo. Ogni governo, ogni Nazione che sta permettendo il respingimento delle persone verso la Libia, o il loro trattenimento in Libia, è complice di gravissimi, gravissimi, abusi sugli esseri umani» diceva nel settembre 2017 Joanna Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere (MSF).

Ventisei centri di detenzione ufficiali, come riporta l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nominalmente sotto il controllo del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (DCIM) gestito dal Ministero dell’Interno del governo di Fayez al-Serraj (GNA), sono di fatto fuori da ogni controllo statale. Un numero imprecisato di centri non ufficiali in mano ai molti gruppi paramilitari, autorità de facto sulle coste libiche dove il confine tra politica migratoria e traffico di esseri umani è tanto labile da rendersi inesistente: basti pensare che il capo della Guardia Costiera di Zawiya, sostenuta e addestrata dagli ufficiali dell’Unione Europea nell’ambito dell’Operazione Sophia per gestire le operazioni di “soccorso” in mare è tale Abd Al-Rahaman Al-Milad, conosciuto come Al-Bija, che nel giugno 2018, insieme al capo della brigata Suhada al Nasr che opera a Zawiya, Mohamd Kachlaf, figurava nella lista dei libici sottoposti a sanzioni dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con l’accusa di tratta di esseri umani.

da UNHCR

Un circolo vizioso di insostenibili abusi supportato dalle sconsiderate politiche dell’Unione Europea che allo scopo di bloccare i flussi migratori in partenza dalle coste libiche finanzia e assiste una Guardia Costiera che – è ormai provato da una pletora di dati ed inchieste – riporta nell’incubo dei centri di detenzione i migranti intercettati in mare.

Almeno 10 mila esseri umani (impossibile determinare con certezza il numero data l’inesistenza di un monitoraggio effettivo delle strutture) imprigionati arbitrariamente, a tempo indefinito, in luoghi senza legge né decenza, condannati a sopravvivere in condizioni tali da spregiare ogni senso del termine “umanità”. Uomini in catene, ammassati a centinaia in fabbriche, fattorie o magazzini dismessi. Condizioni igieniche, alimentari e sanitarie gravemente precarie: «Abbiamo visto allarmanti livelli di malnutrizione acuta, così come alti livelli di tubercolosi. Questi siti non sono adatti per viverci, non ci sono cibo e acqua a sufficienza e le condizioni igieniche sono terribili [..] Ho visto persone vivere in appena un metro quadrato a testa di spazio disponibile. I rischi per la salute, anche mentale, sono molti» denuncia Julien Raickman, Capo missione MSF in Libia. Carcerieri criminali. Un regime di assoluta impunità. Una quotidianità che è una lenta agonia, fatta di vessazioni, estorsioni, schiavitù, stupri e torture: «Un sopravvissuto ci ha detto “Ho sopportato 2 mesi, 3 settimane, 1 giorno e 12 ore di inferno”» riferisce Christophe Biteau, Capo missione MSF in Libia.

Era il dicembre dello scorso anno quando il rapporto Desperate and Dangerous redatto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) e dalla Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) denunciava gli «inimmaginabili orrori» che gli uomini, le donne, persino i bambini, abbandonati a marcire nei centri di detenzione libici soffrono nell’infame indifferenza di quella grande civiltà di valori che è l’Occidente: trattamenti inumani, luoghi di tortura, esecuzioni sommarie, condiscendenza spesso connivenza delle autorità locali. 1300 testimonianze dall’inferno raccontavano di un’esperienza di assoluta privazione della dignità, di disfacimento della vita: «Ci trattano come schiavi e animali. Veniamo arrestati senza motivo, una volta che veniamo incarcerati, o usciamo dopo aver pagato molti soldi o moriamo lentamente».

Era il 10 ottobre del 2017 quando la Corte di Assise di Milano dava per la prima volta un riconoscimento giuridico in nome del Popolo Italiano alla disumana realtà dei centri di raccolta in Libia, condannando all’ergastolo (confermato in Appello lo scorso marzo) il boia del campo di prigionia di Bani Walid dove si vive in «una situazione paragonabile a quella di un lager nazista», per usare le parole pronunciate dal Pubblico Ministero: 500 vite segregate in un hangar, senza cibo, né bagni, né letti, in stato di totale privazione della libertà, costretti all’immobilità e al silenzio; ripetute violenze sessuali; impiccagioni; una “stanza delle torture” in cui subire sanguinose punizioni esemplari con scariche elettriche, frustate, costrizione sotto il sole fino alla disidratazione; sui corpi dei sopravvissuti i segni di fratture da colpi inferti da bastoni e spranghe di ferro, e ustioni da plastica liquefatta incandescente sul corpo; l’unica via d’uscita, il pagamento di un riscatto.

Era appena il 7 luglio scorso quando Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea Saving Humans, a proposito della gente tratta in salvo dalla barca a vela Alex al largo delle coste libiche pochi giorni prima, tuonava: «Tutte le persone scese erano numerate. Poi ci dicono che non dobbiamo parlare di campi di concentramento. Ciascuno di loro aveva un numero addosso, messo in un campo libico, perché vengono presi e spostati come merce. Un ragazzo era stato due anni in un campo libico, avevano ammazzato il fratello davanti ai suoi occhi perché non aveva più soldi per pagare i suoi estorsori».

da The New York Times

Questa è la Libia oggi. È terra di morte, di sangue e di vergogna. È terra di donne stuprate, di neonati affamati, di madri lasciate a dissanguarsi di parto. Di giovani donne costrette a prostituirsi in connection houses gestite da guardie libiche. Di uomini battuti all’asta per 400 dollari americani, come nel novembre del 2017 mostrava un documento video pubblicato in esclusiva dalla CNN. È terra di invisibili dove «Vengono spesso trovati corpi non idenficati di migranti e profughi con ferite da arma da fuoco, segni di tortura e ustioni [..] abbandonati tra cumuli di spazzatura, nel letto di fiumi in secca, non lontano dalle fattorie e nel deserto» scrive l’Onu. È terra di capannoni colmi di corpi gonfi dalle botte, e di spari contro disperati in fuga come quelli a cui la sera del 23 maggio scorso hanno assistito gli operatori di MSF a Bani Walid. È terra di rapimenti, di ricatti, e di dolore scritto sulla carne, come su quella di una giovane mamma ivoriana che: «Sono stata venduta a un gruppo criminale a Bani Walid. Volevano che la mia famiglia trasferisse 1.000 dollari su un conto egiziano. Mi hanno versato della benzina sulle gambe e mi hanno dato fuoco. Ancora oggi non riesco a camminare. Picchiavano tutti, stupravano le donne. Il mio bambino di due anni è stato bruciato con una sigaretta. Ho visto morire molte persone».

In Libia si muore, di fame, di tormenti, di bombe: «Dov’è l’umanità? Dove sono i nostri diritti umani? Dove è l’Onu? Dov’è il mondo? Noi siamo all’inferno» – chiedono i disperati del centro di Qaser Bin Gashir, dove circa 600 persone, tra cui molti bambini e donne incinte, sono in trappola sulla linea di fuoco. Perché la Libia è anche terra di guerra. Almeno 3mila dei detenuti nei centri ufficiali intorno a Tripoli, stima l’OIM, sono bloccati senza via di fuga in zone di combattimento, nel mirino: 53, di cui sei bambini, i morti causati dall’attacco aereo notturno guidato dal generale Haftar contro il centro di Tajoura lo scorso 3 luglio, oltre 100 i feriti.

Oggi in Libia si scrive la storia di 22 morti di malattie, fame e sete al centro di Zintan, dove, tra vermi, spazzatura ed escrementi, si stima siano rinchiuse 700 persone, in maggioranza eritree, con appena quattro bagni funzionanti, poca acqua non potabile e nessuna doccia. Quella di Elijah, 27enne della Sierra Leone detenuto al centro di Misurata che alle operatrici di Human Rights Wacht racconta che «Ci frustano. [..] Ci fanno sedere al sole o stare in piedi e guardare dritti verso il sole. Quando protestiamo ci picchiano. [..] C’è quest’uomo del Mali, gli hanno dato la scossa due mesi fa. Sta sempre seduto sul pavimento. Prima parlava normalmente, adesso ha lo sguardo fisso avanti. [..] Ci sono altri tre come lui qui, sempre per colpa delle scariche elettriche». Quella di Nzube, 24enne nigeriana detenuta al centro di Ain Zara, preoccupata per il suo affamato bambino di tre mesi: non c’è cibo per lui, e lei non può allattarlo perché benzina e acqua le hanno bruciato i seni nel marzo 2018 quando con il marito, da cui è stata separata e di cui non ha più notizie dallo sbarco, ha tentato la traversata verso l’Europa su un gommone troppo carico e perciò andato a picco. Quella di Kameela, 23enne somala, che, nello stesso campo, dovrà partorire il figlio del suo stupratore.

Non è una storia di follia, né di bestialità: è la storia umana tragicamente mai irripetibile del disprezzo dell’uomo per l’uomo. È la storia di corpi mostrati ad urlare il dolore che le parole non possono dire, perché «Se anche raccontassimo, non saremmo creduti», scriveva Primo Levi a proposito delle mostruosità compiute nei campi nazisti in un 1942 che non sembra poi così lontano.

Succede oggi, nel nostro tempo, che uomini in fuga dalla disperazione della propria esistenza alla ricerca di un rifugio, uno qualsiasi purchè sia sicuro, siano confinati nella miseria e nella mortificazione: esseri umani colpevoli di niente se non della loro brama di vita sono reclusi, torturati, stuprati, fatti schiavi. Fame, malattie, lavori forzati, violenze indescrivibili se non dai corpi su cui sono incise, umiliano e uccidono. Succede oggi, nel nostro tempo, dall’altra parte del mare. Tutti sappiamo. Tutti fingiamo di non sapere. Tali e tante atrocità ci fanno orrore ma non ci smuovono contro chi potrebbe ma non vuole.

«Le crudeli politiche attuate dagli stati dell’Unione europea per impedire gli approdi sulle loro coste, insieme al loro insufficiente contributo in termini di percorsi sicuri che potrebbero aiutare i rifugiati a raggiungere la salvezza, significa che migliaia di uomini, donne e bambini restano intrappolati in Libia e continuano a subire violenze orribili, senza una via d’uscita», sostiene Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. «Gli stati membri dell’UE stanno abdicando alla loro responsabilità [..] Lo fanno essendo pienamente consapevoli delle violenze e degli abusi estremi che migranti e rifugiati soffrono in Libia. Esortiamo i governi europei a mostrare un po’ di decenza e ricordiamo che stiamo parlando di vite umane e sofferenze umane» – le fa eco Karline Kleijer, Responsabile per le emergenze di MSF.

Noi, nati per sorte dalla parte giusta del mondo, abbiamo un privilegio che a chi muore nei campi di concentramento libici non è concesso: la scelta. E stiamo scegliendo di ignorare, di voltarci dall’altra parte. Non per incoscienza. Ma per convenienza, per indifferenza, per insofferenza e ostilità verso uno straniero che dimentichiamo essere un sopravvissuto e percepiamo come nemico quando su un gommone attraversa il mare nella consapevolezza che il dubbio della vita è comunque preferibile alla certezza della morte in Libia, perché le nostre doti di pensiero e di empatia sembrano essere andate alla deriva. E allora siamo complici del dramma di tanti esseri umani – diminuiti a questioni sociali e migratorie, scartati di una società che pare non conoscere né responsabilità né coscienza – sacrificato alle ragioni geo-politiche fatte di propaganda e frontiere: «Siamo abbandonati qui. Non possiamo tornare indietro e nessuno ci vuole da qualche altra parte. Davvero non so dove sia il mio posto in questo mondo» ripete a MSF un rifugiato eritreo detenuto al centro di Zintan.


Foto in copertina da Le Monde

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