L’olandese volante sui mari italiani

Di Giulia Vicari – La vicenda della Sea Watch 3 e del suo capitano Carola Rackete, continua ad essere nell’occhio del ciclone degli ultimi giorni. C’è chi si schiera dalla parte di Carola e chi invece sostiene il pugno duro di Salvini. Abbiamo raccolto le normative principali per cercare di fare chiarezza sulla discussa vicenda.

Si è parlato tantissimo di Convenzioni Internazionali, Regolamenti europei, principi costituzionali, e ci si chiede se il capitano abbia fatto bene o meno ad attraccare a Lampedusa nonostante il divieto. Partiamo da un presupposto fondamentale: tecnicamente, le Convenzioni internazionali e i Regolamenti europei, costituiscono un limite alla potestà legislativa di uno Stato. Di conseguenza se uno Stato sottoscrive un trattato internazionale, questo non può essere derogato da scelte discrezionali dell’autorità politica. Ciò significa che alla ratifica di un trattato, segue il rispetto di tutte le norme previste al suo interno, senza eccezioni. E questo è la nostra Costituzione a dircelo.

Tra le più importanti leggi interne che “contrastano” con le leggi internazionali e che, nel caso in esame si considerano violate, ci sarebbero alcuni articoli del codice penale, del D.Lgs. 286/98 (Testo Unico Immigrazione) e le nuove norme del decreto sicurezza bis. Ma andiamo a vedere quali sono le norme di diritto internazionale più importanti che dovrebbero, teoricamente, derogare la normativa interna:

Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, cd. Convenzione di Montego Bay. La Sea Watch è rimasta in mare per più di due settimane e ferma al largo di Lampedusa per tre giorni. Si è mossa spesso, senza mai varcare le acque italiane da come si evince dall’immagine che ha fatto il giro dei social.

Fonte foto – Twitter Sea Watch

In questo caso è la Convenzione di Montego Bay a venirci in aiuto, perché ha introdotto una serie di indicazioni specifiche circa le “fasce” di mare che sono di esclusiva proprietà di uno Stato. Uno Stato può quindi negare uno sbarco? Si, lo può fare.

La Sea Watch il 26 giugno scorso, decideva di entrare nel mare territoriale italiano, sebbene il giorno prima anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva rigettato la richiesta avanzata dalla Ong olandese sull’adozione di misure provvisorie per consentire l’approdo dei 42 migranti a bordo. La CEDU riteneva che non vi erano fondati motivi per chiedere al Governo italiano di applicare un provvedimento provvisorio, non offrendo però alcuna soluzione alternativa.

Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, cd. Convenzione di Amburgo nota anche come SAR, acronimo di search and rescue. La Convenzione Sar impone il preciso obbligo di prestare soccorso e assistenza alle persone in mare e il dovere di far sbarcare i naufraghi nel primo porto sicuro (place of safety).

Questo significa che: un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale. In parole povere, un porto è sicuro se garantisce il rispetto dei diritti umani dei naufraghi, e la Libia, com’è ben noto, non lo è.

Convenzione relativa alla statuto dei rifugiati, cd. Convezione di Ginevra del 1951. La Convenzione sullo status dei rifugiati costituisce un documento legale fondamentale. Tutela i diritti dei migranti nonché specifica gli obblighi legali degli Stati per proteggerli. Il principio più importante è quello del non-refoulement (non respingimento) sancito dall’art. 33 della stessa Convenzione e che dispone che «nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

Dunque i 42 migranti a bordo dell’imbarcazione non potevano essere riportati né in Libia (come qualcuno ha proposto) né in Tunisia, sebbene la situazione sia migliore rispetto alla Libia. La Tunisia infatti, non è attrezzata per garantire i bisogni dei migranti e non ha una legislazione completa sulla protezione internazionale.

Occorre rammentare inoltre che nessun porto libico può essere qualificato come luogo di sbarco sicuro, non solo perché i migranti sono esposti a rischi considerevoli di torture e trattamenti inumani e degradanti, ma anche perché il Governo di Tripoli non ha aderito alla Convenzione di Ginevra.

Regolamento di Dublino. Menzionato spesso dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini, questo trattato dispone i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e stabilisce quale Paese debba prendere in carico la protezione di un richiedente asilo sempre nel rispetto della Convenzione di Ginevra.

Ma perché il Ministro dell’Interno si accanisce tanto contro questo Regolamento e perché si ostina a “chiudere i porti”? Secondo la struttura dell’accordo, il Paese che deve prendere in carico la richiesta di protezione internazionale, deve essere il primo in cui il migrante ha messo piede. Il rifugiato può presentare domanda di protezione soltanto in un Paese dell’Ue e questo crea disparità tra i Paesi facilmente raggiungibili via mare rispetto ad altri. Dunque se un migrante arriva dall’Africa in Italia, l’Italia dovrà obbligatoriamente prendersi cura del migrante e farsi carico della richiesta di protezione internazionale. Ecco perché Salvini professa di continuo la politica dei porti chiusi.

Ma qui arriva il cane che si morde la coda. Diverse sono state le occasioni che dal 1990 ad oggi hanno consentito all’Italia di fare marcia indietro e negoziare effettivamente un’equa redistribuzione dei migranti in tutta l’Europa. L’ultimo vertice europeo per discutere su un’eventuale modifica in tal senso, si è avuto a giugno dell’anno scorso. Tuttavia, sebbene la proposta principale portata avanti dalla Bulgaria, non superava del tutto il criterio del Paese di primo ingresso in Europa, si sarebbe potuto negoziare un ulteriore compromesso.

Ma niente è stato fatto poiché l’Italia, e in primis la Lega che da anni porta avanti il principio di un’equa ripartizione, non si è presentata alle proposte di riforma. L’Italia ha quindi deciso di non negoziare su una seria e fondamentale questione che da anni assilla la Lega. Pertanto, sebbene una riforma di Dublino sia prevista nel programma di Governo di questo partito, l’assenteismo al Parlamento Europeo ha avuto la meglio.

Se si modificasse il regolamento Dublino – e quindi se i migranti venissero effettivamente redistribuiti per tutta l’Europa – verrebbe meno un richiamo populista e propagandistico salviniano. Chissà, forse finirebbe l’ascesa di Salvini e con lui finirebbero le foto del Grande Fratello, i giochini via social e perfino il cuore immacolato di Maria si offenderebbe.

Fonte La Stampa

Rispondendo poi alle domande che si leggono maggiormente sul web: il capitano non ha scelto come destinazione di sbarco l’Olanda, Malta, la Spagna o la Grecia perché, oltre al lungo silenzio dell’Europa, alcune località erano troppe lontane da raggiungere e la legge internazionale obbliga le navi a far scendere i migranti nel primo porto sicuro più vicino.

Lo stesso ministro dell’Interno ha dichiarato con un post su Facebook che la Sea Watch si trovava «a 38 miglia dalle coste libiche, a 78 miglia dalla Tunisia, a 125 miglia da Lampedusa, e a 170 miglia da Malta». Confermando che le Autorità libiche avessero indicato Tripoli come porto più vicino per lo sbarco. Ovviamente, per le ragioni sopraesposte, era impensabile far attraccare la nave in Libia.

Relativamente alle modalità di ingresso a Lampedusa, il capitano ha rischiato di travolgere una motovedetta della Guardia di Finanza che bloccava l’ingresso della Sea Watch quindi, sebbene abbia dichiarato che «si è trattato di errore di manovra», il capitano potrebbe rischiare ripercussioni a livello giudiziario, nonché essere accusata di favoreggiamento all’immigrazione clandestina;

Il neo approvato decreto sicurezza bis invece, potrebbe essere applicato per la prima volta al caso Sea Watch dove all’art. 1 si stabilisce che il ministero dell’Interno può «limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica», in caso di violazione si applica una sanzione amministrativa che va dai 10.000 ai 50.000 euro.

Ma le uniche vittime di questa ennesima vicenda mediatica sono i 42 migranti rimasti in balia del mare e del caldo per più di due settimane. Vittime di un sistema e di un’Europa egoista che non riesce a farsi carico di un fenomeno naturale quale quello dell’immigrazione. Un’ipocrisia politica ormai decantata che costringe i soggetti salvati in mare a subire ulteriori umiliazioni della loro dignità. Diceva Cesare Beccaria in Dei Delitti e delle Pene: «Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa».