C’era una volta la Ferrari vincente

Di Nunzio Cancilla – Quasi 19 anni fa, l’8 ottobre 2000 a Suzuka, Michael Schumacher conquistava il primo dei suoi cinque titoli mondiali con la Ferrari, succedendo a Jody Scheckter, iridato con la scuderia del cavallino rampante nel 1979 ed ultimo pilota, prima del tedesco, ad aver vinto il campionato mondiale di Formula Uno con la rossa di Maranello: si interrompeva finalmente un digiuno lungo ben 21 anni. Si apriva così il ciclo più vincente nella storia della Ferrari in Formula Uno, un vero e proprio dominio che vide Schumacher e la Ferrari battere tutti i record della storia di questo sport.

A beneficio di chi non avesse avuto la fortuna di assistere all’epopea di Schumi in Ferrari, è utile riportare alcuni dei record detenuti tutt’oggi dal campione tedesco: oltre ad essere il pilota a poter vantare il maggior numero di titoli mondiali conquistati (7), il tedesco è quello ad avere il maggior numero di titoli mondiali vinti consecutivi (5), il maggior numero di gran premi vinti (91) e di vittorie in una stagione (13 su 18), il maggior numero di vittorie con lo stesso costruttore (Ferrari, 72) e di podi con la stessa scuderia (Ferrari, 116), il maggior numero di giri veloci in gara (77) e di giri veloci con la stessa scuderia (Ferrari, 53), il maggior numero di hat trick (pole position, vittoria e giro veloce, 22), il maggior numero di double (pole position e vittoria) consecutivi (6), il maggior numero di vittorie con giro veloce (48) e il minor numero di gare per l’assegnazione matematica del mondiale (11 su 17, pari al 64,7% delle gare totali, 2002).

Questi sono soltanto una minima parte dei record – forse i più eclatanti – messi a segno dal pilota tedesco, in gran parte realizzati con la scuderia del cavallino rampante. Già questi numeri danno l’idea di quanto siano stati grandiosi quegli anni per i tifosi della Ferrari. Soltanto l’esplosione di Fernando Alonso ed una tempestiva e come non mai desiderata (dagli avversari) rivoluzione del regolamento della Formula Uno (tra le tante novità spiccava su tutte l’uso di un solo set di pneumatici per un intero GP), misero fine al dominio Schumacher-Ferrari, che rischiava di durare per molti anni ancora. Ma, soprattutto, il rischio che la FIA (Federazione Internazionale dell’Automobilismo) non aveva intenzione di correre era quello di fare allontanare i più facoltosi sponsor dalla Formula Uno a causa del calo di interesse di una gran fetta di pubblico verso il circus della F1 per via dell’esito sempre più scontato delle gare.

Dopo i due titoli conquistati da Alonso con la Renault (2005 e 2006), la Ferrari, ancora sotto la direzione sportiva di Jean Todt, riusciva a riportare la corona iridata a Maranello con Kimi Raikkonen nel 2007, al termine di un campionato avvincente come non mai che vide il finlandese prevalere di un solo punto su entrambi i piloti McLaren-Mercedes, appaiati al secondo posto: il debuttante Lewis Hamilton e il campione in carica Fernando Alonso. I due piloti delle “frecce d’argento” si resero protagonisti di una lotta interna fratricida che, al termine della stagione, sancì il divorzio dello spagnolo dalla McLaren per tornare alla Renault. I motivi della separazione anticipata di un matrimonio che era stato fortemente voluto da entrambi solo 12 mesi prima, erano da addebitare proprio all’impossibilità di condividere il box con un talento purissimo, seppure ancora da sgrezzare, come Hamilton, che al suo primo anno in Formula Uno aveva avuto la sfacciataggine di sfidare il campione in carica, con l’aggravante di averlo fatto da compagno di squadra. Ne approfittò Raikkonen, che riuscì nell’impresa di laurearsi Campione del Mondo con 6 vittorie (contro le 4 di Hamilton e 3 di Felipe Massa), grazie a un rendimento costantemente alto per tutto il campionato, piazzandosi spesso a podio. Ed è proprio a quel 21 ottobre 2007 a Interlagos che l’orologio della Ferrari si è fermato.

Sono passati quasi 12 anni, un’era sportivamente parlando. Dopo Jean Todt la direzione sportiva è passata fra le mani di Stefano Domenicali, di Marco Mattiacci, di Maurizio Arrivabene ed infine di Mattia Binotto, con la miseria di un titolo costruttori vinto nel 2008 con Domenicali, quando ancora a Maranello probabilmente si poteva beneficiare degli effetti della precedente gestione di successo.

Ma cosa c’è dietro questa crisi senza fine che ha investito la scuderia più gloriosa e vincente della storia della Formula Uno? Rispondere ad una domanda del genere è sempre difficile, anche perché sicuramente non esiste un’unica motivazione. Esistono bensì una serie di concause che hanno portato a questo digiuno che, anno dopo anno, non fa altro che aumentare la delusione fra i milioni di tifosi della rossa di Maranello. Certamente il susseguirsi di modifiche al regolamento tecnico non ha favorito la Ferrari, costretta ad assistere da spettatrice ai cicli vincenti prima di Red Bull e ora di Mercedes, entrambe scese in campo al momento giusto e in grado di portare introiti freschi all’interno del circus e, anche per questo motivo, meritevoli di “attenzioni” da parte di chi scrive i regolamenti.

I nuovi circuiti, accusati di essere tutti molto simili tra loro e quindi di favorire inevitabilmente la squadra da battere; lo smantellamento, per ragioni anagrafiche e non solo, della grande Ferrari dei tempi d’oro, non solo nelle figure di spicco come Jean Todt e Ross Brawn ma anche di tutto il team composto dagli ingegneri, dai meccanici e dagli uomini Ferrari che per tanti anni hanno dato il loro contributo in fabbrica; una gestione non ideale da parte dell’azionista di maggioranza che ha portato, nel gennaio 2016, alla scorporazione dal gruppo FCA passando sotto il controllo diretto di Exor (la holding della famiglia Agnelli, ndr); l’addio, non senza polemiche, del Presidente Luca Cordero di Montezemolo nel 2014 e i vari avvicendamenti alla guida della gestione sportiva della Ferrari, avvenuti in momenti non sempre consueti per un cambio ai vertici del team. Quelle appena elencate sono alcune delle principali motivazioni che hanno portato alla situazione attuale.

Negli ultimi 10 anni la Ferrari ha dilapidato un patrimonio tecnico ed umano di altissimo livello, accompagnando dapprima alla pensione un pilota di grande talento, due volte campione del mondo, come Fernando Alonso (in rosso dal 2010 al 2014); sta lentamente seguendo ora la continua ma quanto mai inesorabile involuzione di Sebastian Vettel.

Negli anni trascorsi insieme al campione spagnolo, la Ferrari non è mai riuscita davvero a garantire all’asturiano una monoposto in grado di confrontarsi ad armi pari con Vettel ed una Red Bull in quegli anni dominatrice. Il gap di affidabilità e di prestazioni, soprattutto in qualifica, ha rappresentato un ostacolo insormontabile per il raggiungimento del titolo mondiale, nonostante la Rossa potesse contare sulle qualità di un pilota che in gara è risultato spesso un osso duro per Vettel. In quegli anni Alonso, maestro soprattutto nello sviluppo della monoposto nel corso della stagione, si è trovato a lottare contro i mulini a vento, dovendo affrontare, oltre al gap tecnico con la Red Bull, anche alcune disavventure ai box in occasione dei pit stop e non di rado le infelici strategie del muretto Ferrari. Emblematico quanto successe nel 2010 quando, nel corso dell’ultima gara ad Abu Dhabi, Alonso perse il titolo in favore di Vettel a causa di una scellerata gestione della strategia di gara. Fatale fu un errore di valutazione sui tempi della sosta: la Red Bull fece fermare per il pit stop Webber già al 16º giro, inducendo pertanto gli uomini della Ferrari ad emulare tale scelta. Sia l’australiano che lo spagnolo, tuttavia, non furono in grado di risalire le posizioni necessarie, dando a Vettel, in testa, la possibilità di vincere la gara e il Mondiale.

Proprio Sebastian Vettel, nel frattempo ingaggiato a Maranello per sostituire Alonso dal 2015, viene da almeno un anno mortificato quasi ogni weekend di gara dal cannibale Lewis Hamilton, che ha psicologicamente distrutto il tedesco, riuscendo sistematicamente ad indurlo all’errore ogni qualvolta si arrivi al duello diretto in pista. Al netto degli anni in cui la Ferrari non gli ha dato una vettura competitiva per competere con la Mercedes (2015, 2016 e 2019), la verità è che il tedesco non ha convinto neanche negli anni in cui ha lottato per il titolo, nel 2017 e soprattutto nel 2018, quando nel confronto diretto con Hamilton sono emerse tutte le lacune tecniche e di personalità rispetto al campione inglese. Troppi errori, considerando che Vettel è un quattro volte campione del Mondo, che vanno a sommarsi agli ormai cronici problemi di prestazioni, affidabilità e strategia della Ferrari.

La Formula Uno è uno sport che, per permettere ai team di competere ai massimi livelli, comporta un impegno di base di altissima ingegneria che, in quanto tale, necessita di essere supportato da investimenti miliardari. Questo concetto si può racchiudere con due termini chiave, attorno ai quali inevitabilmente si nasconde la chiave del successo o meno di un team in Formula Uno: tecnologia e investimenti. A testimonianza di ciò basta analizzare i numeri a partire dal 2014, anno in cui è stato varato il nuovo regolamento tecnico che ha dato vita alla generazione dei nuovi motori ibridi e ha visto la Formula Uno entrare nell’era power unit. Su 110 GP disputati (da Melbourne 2014 a Silverstone 2019) ben 83 sono i successi della Mercedes, contro i 14 della Ferrari ed i 13 della Red Bull. Tale quadro, già di per sé molto netto, è confermato dai numeri relativi alle pole position, contesto in cui la Mercedes emerge in modo ancora più prorompente con uno schiacciante 91 su 110, grazie ad anni di superiorità della sua mappatura da qualifica. Per il resto la Ferrari è a quota 15 pole, poi c’è la Red Bull a quota 3, oltre all’exploit di Felipe Massa su Williams nel Gran Premio d’Austria 2014.

La Mercedes è nettamente il team che ha interpretato al meglio il regolamento, che ha saputo sviluppare la migliore power unit, che ha realizzato il miglior telaio il quale, a sua volta, è capace di supportare più adeguatamente, di anno in anno, le diverse mescole degli pneumatici che Pirelli fornisce ai team. Del resto i numeri non mentono: il grande sviluppo tecnologico della scuderia di Brackley è stato accompagnato dagli investimenti faraonici sia sulla monoposto sia necessari all’ingaggio di Hamilton. Questi sono gli ingredienti che caratterizzano il binomio vincente Mercedes-Hamilton, che hanno portato il pilota migliore a bordo della monoposto migliore: anche in F1, così come in tutti gli sport, non si vince a caso.

Non si ha motivo di dubitare che a Maranello ci sia il meglio dell’ingegneria automobilistica italiana (e non solo), né tantomeno si possono sollevare dubbi sulla volontà di puntare sempre al massimo obiettivo da parte di chi, nel corso degli anni, ha guidato la Ferrari, sostenuto da un budget da primato. Ciò comunque non esonera i responsabili del reparto corse dal dovere di operare sempre in maniera oculata e, soprattutto, con competenza.

Dopo 10 gare su 21 del campionato mondiale in corso la Ferrari si trova al secondo posto nella classifica dei costruttori alla distanza abissale di 164 punti dalla Mercedes, in un campionato virtualmente chiuso. Non è migliore la situazione nel campionato piloti, in cui Vettel è a 100 lunghezze di distacco da Hamilton in quarta posizione dietro addirittura a Bottas e Verstappen. Charles Leclerc, il 21enne monegasco che sta bruciando le tappe al primo anno in Ferrari, è quinto a soli 3 punti di distacco dal tedesco. I conti non tornano dunque neanche quest’anno, ormai gettato alle ortiche, in cui il massimo obiettivo è realisticamente quello di riuscire a vincere un gran premio. La stagione era iniziata con l’avvicendamento Arrivabene-Binotto, quantomeno strano nella tempistica perché arrivato il 7 gennaio, quando la nuova monoposto era già pronta ed in procinto di essere presentata e con un’intera stagione alle porte da vivere con un team principal responsabile di una vettura che però è stata concepita e realizzata sotto la gestione del suo predecessore.

A posteriori, alla luce dei deludenti risultati di questa stagione, il commento non può che essere quello che ai piani alti in casa Ferrari, essendosi accorti dell’obbrobrio appena partorito (l’ennesima vettura destinata a non poter competere in pista con la Mercedes), sia stata tagliata la testa di Arrivabene, il quale ha pagato per tutti. Un po’ come quando, nel calcio, a causa dei risultati deludenti in pre-season, alcuni dirigenti, consapevoli di non aver allestito una squadra all’altezza dell’obiettivo stagionale dichiarato, esonerano l’allenatore ancora prima dell’inizio del campionato. Una metodologia che spesso si rivela fallimentare nel calcio ma che, ancor più in uno sport come la Formula Uno, è totalmente insensata. In realtà per Binotto, uomo Ferrari da quasi 25 anni, si è trattata di una promozione, dato che era già direttore tecnico della scuderia di Maranello: questo però significa che lo stesso Binotto ha la sua parte di responsabilità nella disgraziata stagione della Rossa. Ma è giusto attendere la prossima stagione per valutarlo come team principal, quando la nuova Ferrari sarà la sua prima monoposto come direttore della gestione sportiva.

E allora, come si supera quest’impasse? È la fine della storia gloriosa della Ferrari nel mondo delle corse? Nulla di tutto questo. Lo sport, così come la storia, vive di cicli e, prima o poi, finirà anche quello Mercedes. La Ferrari deve essere pronta a raccoglierne l’eredità, a differenza di quanto non riuscì a fare nel 2015, quando si esaurì il ciclo Red Bull. Bisogna raccogliere i cocci di quel che resta di positivo di questa stagione, soprattutto la crescita di Leclerc, accompagnando il pilota monegasco verso una maturazione completa, sostenendolo con una monoposto adeguata al suo talento. Con passione e competenza ma anche con la calma, resettando il mood negativo degli ultimi 10 anni e consentendo a Charles anche la possibilità di poter sbagliare. Dopo tutto, nella memoria di tanti tifosi della Rossa è ancora vivo il ricordo dei 21 anni di vacche magre tra il titolo conquistato da Jody Scheckter e il primo mondiale di Michael Schumacher. Ecco, la speranza è proprio quella di non essere costretti ad attendere altri 21 anni prima di tornare sul tetto del mondo.