Altro giro, altra corsa: Israele torna al voto

Di Maddalena Tomassini – Altro giro, altra corsa: il 17 settembre Israele torna al voto per la seconda volta in un anno. Il clima è di una chiara incertezza: tutti contro tutti e tutti (o quasi) contro Benjamin Netanyahu. È ancora lui, l’uomo da battere: Netanyahu, che proprio questi giorni ha battuto il record di “longevità” politica di David Ben Gurion, fermo a 4.876 giorni di governo. Netanyahu, che il 30 maggio ha dovuto ammettere la sconfitta: non è riuscito a formare un governo.

Ad oggi, il panorama politico appare ancora più ingarbugliato di quello dello scorso aprile. Sia il Likud che il principale partito oppositore, il Partito blu e bianco di Benny Gantz e Yair Lapid, perdono terreno nei sondaggi. Secondo le previsioni diffuse il 19 luglio da Maariv, il Likud potrebbe scendere da 39 seggi a 32, e il suo avversario da 35 a 29.

L’uomo del momento sembra essere Avigdor Lieberman. Nato nell’allora URSS, l’ex-ministro della difesa rappresenta una delle comunità più grandi del Paese. Nazionalisti e contraddistinti da un forte sentimento anti-arabo, non sono particolarmente religiosi e non vedono di buon occhio l’establishment religioso del Paese. In migliaia non sono neanche “davvero” ebrei, a causa di una discordanza fra la legge di cittadinanza dello Stato e quella dei rabbini.

In Israele chiunque abbia un nonno o una nonna ebrei può ottenere la cittadinanza, ma per i rabbini si è ebrei solo se è la propria madre a esserlo. «Ha messo da parte il discorso anti-arabo, – spiega Adam Keller, portavoce dell’ong Gush Shalom – enfatizzando la lotta per la laicità dello Stato contro l’establishment religioso. E sembra che stia funzionando». Secondo i sondaggio di Maariv, il suo partito potrebbe salire dai cinque seggi ottenuti ad aprile a nove.

Avigdor Lieberman

Va detto che è proprio il tema della laicità dello Stato ad aver fatto fallire il tentativo di creare un governo, in particolare per l’annoso problema della leva obbligatoria per i giovani ultra-ortodossi, ora esentati. «Non è obiezione di coscienza – commenta Keller – per loro non ha importanza cosa faccia l’esercito. Non vogliono che i loro figli si sporchino le mani, e questo fa infuriare molte persone».

Sul fronte dei partiti della destra religiosa, le ultime settimane sono state di fuoco. Il ministro dell’Istruzione, il rabbino Rafael “Rafi” Peretz, è riuscito, in una sola intervista, a sostenere la terapia di “conversione” per gli omosessuali e la completa annessione a Israele della Giudea e Samaria (i.e. i Territori Palestinesi). Senza concedere alla popolazione araba, è evidente, alcun diritto politico. «Si chiama apartheid», ha commentato la giornalista di Channel 12.

La comunità LGBT israeliana è esplosa, e lo stesso Netanyahu ha respinto la posizione di Peretz sull’omosessualità. Più tiepida, invece, la reazione sull’annessione della Cisgiordania (d’altronde non è certo né il primo e né l’ultimo a sognare la “Grande Israele”).

Intanto, la sinistra ha tempo fino al primo di agosto per trovare un accordo e presentarsi compatto alle elezioni del 17 settembre. Difficile credere che in poco più di una settimana i partiti riusciranno a trovare un accordo. Il Partito laburista, che si presenterà insieme al Partito Gesher, non può che guardare con nostalgia ai suoi anni d’oro, quando rappresentava la prima forza politica dello Stato israeliano. Non aiuta che il suo leader, Amir Peretz, abbia di recente dichiarato possibile un’alleanza con il Likud di Netanyahu.

Il leader del Partito Meretz, Nitzan Horowitz ha lanciato un avvertimento agli elettori: «Un voto per il Partito laburista è un voto per Netanyahu». Lontana anche la prospettiva di alleanza con il nuovo partito dell’ex-premier Ehud Barak, il Partito democratico israeliano: un ritorno alla politica in chiave anti-Netanyahu accolto tiepidamente, tanto che in base ai sondaggi non arriverebbe a superare la soglia di sbarramento fissata al 3,25%.

L’ex-premier Ehud Barak

Il fronte arabo non se la passa meglio. Dopo il divorzio che ha smembrato la Lista comune in quattro, i partiti arabi sono stati serviti dal loro elettorato con un’affluenza alle urne del 50%, il 13% in meno rispetto alle elezioni del 2015. Ciononostante, Hadash, Ta al, Balad e la Lista araba unita si candideranno ancora una volta divisi: il 18 luglio il comitato di riconciliazione ha annunciato di non essere riuscito a raggiungere un accordo.

Cosa emergerà da questo magma confuso è difficile da prevedere. Quel che è certo è che, in campagna elettorale, si toccheranno ben poche delle numerose problematiche della società israeliana. Le prossime elezioni si confermano essere, come ad aprile, un referendum su Netanyahu.

Di certo, non si parlerà del conflitto con i palestinesi (senza contare che per il Medio Oriente la partita davvero importante è quella che si giocherà a Washington l’anno prossimo). «Per queste elezioni – conclude Keller – non possiamo sperare in un governo impegnato nella pace, ma possiamo sperare di liberarci di Netanyahu e di trovare in chi lo sostituirà una possibilità per fare meglio, ma questo è ben lontano dall’essere certo.

Netanyahu non è un amante della pace, ma non fa neanche grandi passi verso la guerra. Preferisce mantenere le cose come stanno. C’è la possibilità che al suo posto venga qualcuno ansioso di fare la guerra. Bisognerà aspettare e vedere».