Passano gli anni, Paolo vive e (purtroppo) anche la mafia

 

Paolo Borsellino vive, la mafia pure. Ma la Sicilia non è immobile, non è “solo mafiosi” e non deve essere abbandonata a se stessa o relegata a miti e tradizioni ammuffite che la rendono ancora più isolata e ‘isola’.


Sono passati trent’anni dalla strage di via D’Amelio dove è morto Paolo Borsellino e cinque componenti della sua scorta, Emanuela LoiAgostino CatalanoVincenzo Li MuliWalter Eddie Cosina e Claudio Traina.

La macchina carica di tritolo, l’esplosione, il fumo intenso, sangue ovunque, l’orrore annunciato. Anche con l’aiuto di diverse interviste e documenti esclusivi trasmessi in tv – alcuni dei quali manipolati, anche a detta di sentenze recenti (vedi Dell’Utri) – siamo informatissimi sulle espressioni, le massime, e conosciamo a memoria l’immagine iconica dei due giudici e amici, Falcone e Borsellino. Ma è l’inesorabile abbandono di questi uomini della legalità che va ricordato per comprendere come è potuto accadere il tragico evento del 1992. Un abbandono, quello perpetrato ancora oggi, che è causa di corrosione, non solo strettamente siciliana, ma dell’intero “sistema Italia”.

Quando all’interno degli ambienti dirigenziali, fino ai funzionari statali meno retribuiti, s’infiltrano la corruzione e il malaffare mafioso (e di ogni specie e origine), la macchina amministrativa smette di assolvere alla propria funzione indirizzata alla collettività e giunge al sovversivo – questo sì – particolarismo.

Accadono in un climax inarrestabile: il favore, la chiusura di un occhio, il mancato provvedimento, la commistione tra l’imprenditore mafioso e l’uomo dell’amministrazione, l’uomo politico, e così via innescando meccanismi sempre più grandi e dannosi per singole persone e soprattutto per un’intera comunità costituita sui valori dell’antifascismo e della democrazia.

Questa pericolosa commistione è una dittatura degli affari criminali sulla macchina statale e la mafia non è democratica, non lo è mai stata: favorisce alcuni piuttosto che altri, da a manciari a qualcuno piuttosto che a un altro, si sostituisce alla burocrazia costringendo alla propria “protezione”.

Fu una domanda inevasa di sgombero della via D’Amelio dalle autovetture, rimasta ignorata per i venti giorni precedenti all’attentato, a consentire che quella Fiat 126 esplodesse proprio davanti a Borsellino. Una pratica non sbrigata su indicazione, un favore mafioso, un accordo ad alti livelli rimasto nell’ombra, come quei “mandanti occulti” che ancora oggi si cercano parlando di trattativa Stato-Mafia, mandanti che potrebbero essere nessun’altro che i soggetti (pubblici e privati) danneggiati dal fascicolo “mafia e appalti” su cui aveva indagato il giudice Borsellino.

Che cosa è questa “mafia”? È un comportamento scorretto e sovversivo rispetto all’ordinamento democratico dello Stato. Ed è un’idea che si distrugge con un altro pensiero, altrettanto forte: la cultura della legalità. Fin quando quest’ultima non sarà più conveniente – per se stessi, per la comunità, per le proprie tasche, per il futuro dei propri figli – la mafia non si potrà sconfiggere. Non si tratta di un mito (come affermavano “acute” analisi del passato in cui «la mafia non esiste») e non si tratta propriamente e solamente di un nemico fisico: evasione fiscale e corruzione fanno andare i colpevoli in carcere – quando va bene – ma il nemico più grande, il pensiero mafioso, la collusione, rimangono a piede libero.

Il profitto miete vittime anche in Sicilia. Il dio denaro attrae l’uomo e lo rende artefice di sopraffazione e di indebito vantaggio sull’altro, a tutti i costi, anche se a morire devono essere persone che invece remano contro questa corrente di ingiustizia e avidità. È anche per questo motivo che la mafia è un’idea difficile da sconfiggere: supera gli ostacoli burocratici, amministrativi, morali, umani. Viene inoltre confusa per il latitante di turno, mafia che fugge e vive per scantinati, additata erroneamente come la causa dell’arretratezza economica siciliana – un facile scaricabarile politico questo – o data per sconfitta, grazie a un clamoroso abbaglio storico, durante il Fascismo.

La mafia è corruzione, collusione, favoreggiamento, contrabbando, estorsione, violenza fisica e psicologica. Era siciliana, ma come tutte le aziende più floride, si è globalizzata. Paolo, insieme a tutti gli innumerevoli uomini di legalità caduti – e tutti coloro che la combattono, siano essi comuni cittadini o personalità delle istituzioni – devono ancora vincere la sfida più grande: convincere che rispettare la legge conviene. E per farlo servono tante azioni concrete, a partire dalla dimostrazione che i corrotti pagano e la pagano cara; non solo i “miti” dai soprannomi curiosi, o i boss da telefilm sparatutto, sono gli obiettivi della caccia alla mafia.

La memoria, le icone della legalità sono piccoli tasselli del complesso processo di riconquista della società, soprattutto quella che vive più in periferia e che è più facile da attirare nel facile profitto sotto il controllo mafioso. La Sicilia sarà malinconica e diffidente, ma non è immobile. Come ogni regione di uno stato unitario, non deve essere abbandonata a se stessa o relegata a miti e tradizioni ammuffite che la isolano e la rendono più isola di quanto già sia.


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