Un pacifista palermitano in trincea

 

 
 
 

“La storia è una galleria di quadri dove gli originali sono pochi e molte le copie”, diceva Alexis de Tocqueville. Quella di cui parliamo oggi appartiene decisamente alla prima categoria: una testimonianza unica, raccontata attraverso la forma del romanzo autobiografico, di una vicenda accaduta un secolo fa, sullo sfondo della prima guerra mondiale. “Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra” è la storia di Vincenzo d’Aquila, da lui pubblicata per la prima volta nel 1931 negli Stati Uniti con il titolo “Bodyguard Unseen” e oggi finalmente disponibile in lingua italiana grazie al lavoro di Claudio Staiti, giornalista pubblicista e dottorando all’Università di Messina, che ha tradotto il testo originale e curato questa nuova edizione.

Il libro, presentato all’ARS il 10 giugno scorso con la partecipazione di Carlo Verri (Istituto Gramsci Siciliano), è edito da Donzelli e contiene una prefazione di Emilio Franzina, già ordinario di storia contemporanea all’Università di Verona e tra i massimi studiosi del fenomeno dell’emigrazione italiana.

Quello della migrazione, insieme alla guerra e alla follia, è uno dei grandi temi affrontati nel libro. Vincenzo d’Aquila fu infatti allo stesso tempo migrante, combattente e pazzo (o profeta). La sua storia inizia nel lontano 1892: Vincenzo nasce a Palermo nel settembre di quell’anno. Nel 1896, come tanti suoi conterranei costretti a migrare all’estero, parte con la sua famiglia per cercare fortuna in America. Dopo varie vicissitudini, si trasferisce con suo padre a New York nell’Upper East Side e nel 1914 diventa cittadino americano.

Sebbene ciò comportasse la rinuncia alla lealtà nei confronti della monarchia italiana, il suo rapporto con il paese d’origine sopravvive, grazie anche e soprattutto al legame con la comunità di emigranti italiani a New York e alla stampa italoamericana. Sono proprio le notizie diffuse sui giornali, intrise di una propaganda in cui è ancora forte il mito patriottico del Risorgimento, a spingere il giovane Vincenzo ad arruolarsi come volontario nell’esercito subito dopo lo scoppio della guerra nel 1915.

Tuttavia, una volta sbarcato a Napoli a luglio, le immagini trionfalistiche evocate dalla propaganda si scontrano subito con la cruda realtà della guerra. Dopo un breve viaggio a Palermo, tra uno sguardo al porto e una breve visita alle Catacombe dei Cappuccini e alla Chiesa di San Domenico, d’Aquila parte per Piacenza per l’addestramento militare prima di essere inviato al fronte, nella valle dell’Isonzo. Ed è lì, di fronte allo spettacolo atroce e alla violenza inumana del conflitto armato, che fa la sua “chimerica promessa” a Dio: da quel momento in poi, non avrebbe sparato neanche un colpo per tutta la durata della guerra. Un gesto, questo, che ne fa un vero e proprio obiettore di coscienza ante litteram.

Dopo pochi mesi passati a lavorare come dattilografo in trincea, si ammala di tifo. Sopravvissuto, si sveglia in un ospedale a Udine e successivamente spedito in manicomio, poiché ritenuto “pericoloso per sé e per gli altri”. Una sorte simile a quella toccata a molti altri pacifisti e antimilitaristi del tempo, in alternativa all’esilio. Tuttavia, viene presto dichiarato guarito e non viene più rispedito al fronte (probabilmente in virtù della sua cittadinanza americana), per poi ripartire verso gli Stati Uniti poco prima della fine delle ostilità nel 1918.

Come detto poc’anzi, Vincenzo d’Aquila pubblica la sua testimonianza nel 1931. Il libro viene accolto con varie recensioni, anche sul New York Times, ed è sin dall’inizio considerato parte dello stesso filone dei romanzi di guerra di quegli anni: tra i più celebri, ricordiamo “Addio alle armi” di Ernest Hemingway e “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque. In Italia è invece condannato all’oblio dal regime mussoliniano per la sua manifesta incompatibilità con la retorica nazionalista e militarista del fascismo.

Dopo quasi un secolo, la storia è stata riscoperta nel 2012 da Peter Englund, scrittore e storico svedese, e anche ad essa è stata ispirata una docufiction andata in onda nel 2014 con il titolo “14 – Diaries of the Great War”. Oggi, grazie al lavoro meritorio di Claudio Staiti, possiamo riscoprirla e, in un senso particolare, riviverla, per conservarne la memoria e soprattutto per cercare una risposta a una domanda ancora attuale: la follia è nella guerra o nel rifiuto irrazionale ed eroico di combatterla?