L’odissea di Alexis Tsipras

Di Francesco Puleo – Il risultato delle elezioni europee, tra le più importanti nella storia politica e istituzionale dell’Unione, è un segnale chiaro: ovunque, fatta eccezione per alcuni degli stati membri, la sinistra è uscita sconfitta. L’affermazione di partiti e movimenti della sinistra radicale, in particolare, ha subito una battuta d’arresto, nel contesto di un consolidamento diffuso dei partiti europeisti più moderati: la France Insoumise di Jean Luc Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna e il nuovo Labour di Jeremy Corbyn nel Regno Unito hanno ottenuto percentuali ben al di sotto delle aspettative, per ragioni diverse che andrebbero analizzate caso per caso.

In misura diversa e con le dovute proporzioni, la stessa tendenza si è vista in Grecia, dove la sinistra radicale di Syriza guidata da Alexis Tsipras si è fermata al 24% ed è stata superata dalla destra di Nea dimokratia, che ha superato il 33%. Il caso greco è ovviamente diverso dagli altri, sia per la situazione economica che per le vicissitudini politiche degli ultimi anni. Tuttavia, la sconfitta è un dato di fatto, tanto che il premier Tsipras ha anticipato le elezioni al 7 luglio, prima della scadenza naturale della legislatura.

Il messaggio è arrivato anche alla sinistra degli altri paesi europei, che proprio in Tsipras aveva riposto la speranza della fine dell’austerità e di una rifondazione dell’assetto istituzionale dell’Unione. Dalla consueta analisi della sconfitta, escono però due opinioni contrapposte: da un lato, chi continua a difendere l’operato del premier uscente, dall’altro l’esercito di riserva dei delusi, dei duri e puri e dei traditi. Per capire ciò che è accaduto all’unico governo europeo guidato da un movimento di sinistra radicale e populista, occorre fare un passo indietro.

SYRIZA

Bandiere dei sostenitori della sinistra radicale in Grecia

L’ascesa di Syriza è figlia di quella che in tutta sicurezza sarà ricordata come la più grave crisi economica di questo decennio in Europa. Una crisi che viene da lontano e che risale all’ingresso della Grecia nell’eurozona nel lontano 2001. In quell’occasione, come si sarebbe scoperto qualche anno dopo, il governo avrebbe truccato i conti per rientrare all’interno dei criteri stabiliti dai trattati per l’adozione dell’euro e avrebbe continuato a farlo negli anni successivi, con la complicità di Goldman Sachs, una tra le più importanti banche d’investimento al mondo.

La crisi vera e propria esplode nel 2009, quando l’allora premier greco Papandreu accusa pubblicamente i governi precedenti di avere mentito sulla reale entità del deficit. Il caso vuole che il partito allora al governo fosse proprio Nea Dimokratia, vincitore di queste ultime elezioni europee.

Da quel momento ha inizio la crisi del debito greco, seguita da una spirale discendente di piani di austerità e di governi tecnici incaricati della loro attuazione. Misure emergenziali che però non risolvono la situazione. In questo contesto di crisi per le forze politiche tradizionali emerge la sinistra radicale di Alexis Tsipras, che alle elezioni del 2012 passa dal 17 al 27 % in pochissimo tempo, fino a diventare il primo partito nel 2015 con il 36,3 %.

parlamento grecia

Proteste contro l’austerity davanti il Parlamento greco, 2015

La promessa di Tsipras di risollevare la Grecia dalla crisi si infrange tuttavia a distanza di pochi mesi. La Troika (formata da BCE, FMI e Commissione europea) impone un terzo piano di austerità come condizione di accesso a un prestito di più di 100 miliardi di euro. Tsipras indice un referendum popolare al quale condizionare l’adozione delle misure richieste: più del 60% dei greci si esprime contro il memorandum. Ciò però non basta e, dopo giorni di trattative, Tsipras cede alle richieste dei creditori. Pochi mesi dopo si rimette nuovamente al parere degli elettori e la maggioranza dei greci riconferma il consenso al suo governo.

Da quel momento, Tsipras ha tentato un compromesso quasi impossibile tra le richieste della Troika e il suo programma di ricostruzione dello stato sociale, distrutto da cinque anni di austerità.

E sebbene sia stato costretto ad attuare misure alquanto impopolari, tra cui l’aumento delle tasse e la privatizzazione di 14 aeroporti regionali e di altre aziende pubbliche e infrastrutture strategiche, è riuscito a limitare i danni per quella parte della società greca che più di tutte ha sofferto la crisi: l’aumento del carico fiscale è stato in proporzione maggiore per le fasce più ricche e l’avanzo primario è stato utilizzato per finanziare le pensioni più basse, la costruzione di nuovi ospedali e le assunzioni di medici e infermieri. La disoccupazione è calata, sebbene sia ancora di poco sotto il 20%, così come è calata l’evasione fiscale.

Tutto questo non è bastato però a garantire un consenso duraturo al governo, a vantaggio di Nea Dimokratia e del suo nuovo leader Kyriakos Mitsotakis, il cui programma è di fatto un ritorno al neoliberismo, mascherato dietro la promessa politicamente più spendibile di una riduzione delle tasse.

Difficile dire come andranno a finire le elezioni del 7 luglio. Molto dipenderà dalla capacità di Tsipras di allargare il campo ad altre forze progressiste, ovvero della volontà di queste ultime di schierarsi con lui piuttosto che con la destra. Ad ogni modo, il messaggio di quest’ultima tornata elettorale è chiaro: quando si passa dalla radicalità al compromesso, in un’ottica istituzionale e di governo, si perdono consensi. E se per compromesso intendiamo anche un’ambiguità di fondo rispetto al rapporto con le élite politiche e finanziarie europee e internazionali, il discorso può essere allargato anche alle forze di sinistra degli altri paesi europei.


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