Parliamo di “identità negate” con Vittorio Longhi

Di Erica Barra – Al festival palermitano «Una Marina Di Libri» all’Orto botanico, Vittorio Longhi, giornalista italo-eritreo di Repubblica e New York Times, ha discusso con la professoressa dell’Università di Palermo Alessandra Di Maio dei suoi studi più recenti, sul colonialismo italiano in Eritrea, sulle “identità negate” dei figli della colonizzazione, e su Afropean Bridges, il workshop internazionale che si focalizza sull’identità degli europei di origine africana e sulle relazioni post-coloniali tra Europa e Africa. Abbiamo avuto il piacere di intrattenere una costruttiva intervista con Longhi.

vittorio longhi una marina di libri
Orto Botanico, Palermo, decima edizione di “Una marina di libri”

Perché il colonialismo italiano ha subito questa forte censura e perché l’afro-discendenza è stata occultata?

Forse perché fa parte della costruzione culturale dell’identità nazionale. In Italia tutti conoscono Indro Montanelli, pochi conoscono Angelo Del Boca, giornalista e africanista. Rappresentano due visioni contrapposte del colonialismo italiano. Da un lato c’è Montanelli, che ha parlato della sua avventura in Eritrea come di un’allegra conquista, durante il regime fascista. Montanelli ha raccontato spesso di quando andò al mercato e comprò un fucile, un cavallo e una moglie di dodici anni per pochi soldi.

Del Boca, dall’altro lato, è il giornalista che ha denunciato la totale infondatezza del mito degli italiani “brava gente”. Secondo questa concezione, nelle colonie gli italiani sarebbero stati diversi dai più cattivi francesi, tedeschi o inglesi. Si è così costruita un’idea rassicurante. Non solo i nostalgici del fascismo o le destre in genere, ma anche la sinistra e il mondo progressista non hanno mai investito abbastanza nella ricerca sull’eredità coloniale.

Qual è il suo punto di vista sulla politica estera attuale?

Mi sembra piuttosto provinciale e passiva. Manca una visione sul ruolo dell’Europa nel mondo e sul potenziale dell’Italia nel contesto euromediterraneo. Prevale invece una certa soggezione verso paesi tanto forti economicamente quanto poco democratici, come Cina e Russia. Sulla politica migratoria, poi, dire prima gli italiani o chiudiamo i porti, è come considerare l’Italia un fortino che si può blindare. Illusorio. Bisognerebbe investire seriamente in accordi di scambio, anche di competenze, con i paesi emergenti. Questo ci permetterebbe anche di bilanciare gli squilibri demografici a cui la nostra società sta andando incontro.

Perché attecchiscono queste idee?

Perché in Italia le persone hanno subito alcuni degli svantaggi della globalizzazione economica. L’Italia è uno dei paesi industrializzati che si sono più impoveriti negli ultimi anni. L’interdipendenza economica, lo spostamento della produzione a Oriente hanno fatto crescere la classe media di quella parte del mondo, come ad esempio la Cina, mentre una parte dell’Occidente ne ha sofferto. La politica e il mondo economico non hanno saputo gestire questi cambiamenti e oggi molti italiani si sentono spaventati, precari. I fattori economici determinano molte delle ansie e delle paure collettive. I migranti oggi sono diventati il male sbagliato con cui molti se la prendono e a cui addossano ogni  colpa.

Ma perché gli italiani non hanno fiducia nei confronti dell’idea che l’Europa possa diventare pacificamente multiculturale? Cosa rende questa idea un’utopia anche per chi studia e si informa e ha un approccio più aperto verso la realtà? Come si può cambiare il pensiero?

Serve un impegno condiviso di scuola, cultura, informazione e politica. Molti politici speculano su paure infondate e spesso l’industria mediatica segue passivamente quelle posizioni. I media hanno  una grande responsabilità. Potrebbero aiutare i cittadini a interpretare con più razionalità le trasformazioni della società in senso multiculturale e di maggiore mobilità delle persone. Non succede solo in Italia, nella migrazione dall’Africa, ma in ognuno dei flussi migratori tra diverse aree del pianeta.

Qual è il suo parere riguardo agli aiuti umanitari in loco? Molti personaggi del panorama culturale africano affermano che l’Europa farebbe meglio e meno danno se evitasse di intervenire con aiuti, siano essi in denaro o in forze armate.

L’Unione Europea spende ogni anno mediamente venti miliardi di euro in progetti di cooperazione allo sviluppo in Africa. Circa l’ottanta per cento di questi soldi è mirato a innescare processi di produzione e di innovazione, una parte minima serve a rafforzare i controlli dei confini. In molti casi, come nell’agricoltura, nell’energia e nell’alta tecnologia si innescano circoli virtuosi di cui a beneficiare sono le popolazioni locali.

È il caso del Rwanda e del Benin, ad esempio. In altri casi, nei paesi in cui le riforme democratiche non sono ancora compiute, spesso neanche iniziate come in Eritrea, i fondi europei rischiano di rafforzare i regimi, non aiutare le popolazioni che continuano a vedere nella migrazione l’unica alternativa all’oppressione e alla povertà. L’Unione europea dovrebbe condizionare quegli aiuti alla garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali.

Si potrebbe parlare di diaspora quando si parla dei giovani europei che per necessità si muovono ad esempio da sud a nord?

È una diaspora anche quella. È grave che da paesi come il nostro si sia costretti a migrare per lavoro e la politica dovrebbe mettere questo tema al centro della propria agenda. Ci sono cinque milioni di immigrati regolari in Italia e ci sono cinque milioni di italiani all’estero. Troppi sono quelli partiti perché qui non hanno trovato opportunità. La mia generazione andava serenamente all’estero per un master o un dottorato, o per fare esperienza di lavoro ma con l’idea di potere tornare a lavorare in Italia. Molti nelle nuove generazioni invece sono costretti a partire sapendo di non avere alternative per avere un lavoro dignitoso. 

Lei ha condotto diverse ricerche sul colonialismo italiano in particolare in Eritrea, data anche la sua storia personale, e ha parlato anche della città di Asmara, che ha visto nascere in sè una sorta di Apartheid misconosciuto rispetto a quello più famoso del Sud Africa.

Gli italiani hanno costruito Asmara separando i quartieri, a seconda che fossero abitati da italiani o da eritrei, la città era separata in due. Gli occupati erano semplice forza lavoro a disposizione degli occupanti. In mezzo, anche nella divisione della città, c’erano gli italo-eritrei, o meticci, nati come una sorta di “danno collaterale” del colonialismo. Nei sessanta anni di occupazione del Corno d’Africa molti uomini italiani sono partiti per l’avventura coloniale. Alcuni facevano figli con donne eritree giovani e ingenue, senza curarsi del futuro di quelle donne e di quei figli.

Con le leggi razziali del 1938 il regime fascista vietò ogni possibilità di riconoscimento di paternità, dunque di cittadinanza. Quando poi quei discendenti hanno cominciato a chiedere la cittadinanza alle autorità italiane, in base alla riforma del 1992, quel diritto è stato negato perché non potevano dimostrare il legame, non avevano documenti sufficienti. Alcuni dei ragazzi eritrei che oggi si mettono nelle mani dei trafficanti per raggiungere l’Europa, alcuni di quelli che vediamo arrivare sui barconi o morire in mare sono nipoti e pronipoti di italiani.


Foto in copertina da PopCorn Press

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