La complicata lista della spesa militare italiana

Di Marco CernigliaPiù di una volta, nell’attuale governo gialloverde, si è discusso di una riduzione delle spese militari per far fronte ai problemi di budget per altre riforme. Questo, peraltro, è un punto di divisione fra le due forze politiche al potere, con la Lega che ritiene sia irresponsabile un taglio in questa sfera, e il Movimento 5 Stelle che invece, oltre ad averne fatto un punto di forza in campagna elettorale, si è concentrato molto su una particolare parte della spesa da tagliare: il nodo degli aerei F-35 ordinati dagli USA.

Si era iniziato a discutere di questo accordo già ai tempi del governo Prodi nel 1998; era previsto l’acquisto di 131 velivoli F-35 dalla Lockheed Martin, numero poi ridotto dal governo Monti nel 2012 a 90, per far fronte alla spesa originale di 15 miliardi. Si era cercato, nel 2014, di dimezzare ulteriormente gli ordini, tuttavia la mozione finì nel vuoto.

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Ogni decisione in merito è sempre stata difficile: da un lato, i rapporti con gli americani, già delicati, rischiano di venire compromessi, soprattutto in riferimento all’attuale politica dura di Trump con gli stati dell’Alleanza Atlantica; dall’altro, parte dei pezzi necessari all’assemblaggio dei velivoli viene prodotta proprio in Italia, quindi un taglio dell’ordine significherebbe anche una riduzione della produzione italiana.

Il Movimento 5 Stelle, quindi, che all’opposizione aveva fatto della questione F-35 uno dei punti cardine della  propria propaganda, una volta al governo ha potuto unicamente constatare una impossibilità di uscire totalmente dal programma. Nonostante tutto, Elisabetta Trenta, il ministro della Difesa, ha cercato di ridurre ulteriormente il numero di velivoli, ed è riuscita anche a congelare i pagamenti delle fatture per i lotti ordinati dal precedente governo, portando tuttavia a una sospensione dei rapporti con la Lockheed Martin fino alla risoluzione del pagamento.

Ad oggi, il premier Conte vuole discutere direttamente con Trump i termini dell’acquisto, nel tentativo di tagliare ulteriormente gli ordini e dilazionare i pagamenti; questa proposta dipenderebbe ovviamente dalla reazione di Washington, a cui questo accordo starebbe molto a cuore.

L’Italia, nonostante questi obblighi nei confronti degli USA, è considerato uno degli stati della NATO che spende meno nell’ambito della difesa; i precedenti governi avevano, in vari modi, tentato di aumentare gradualmente la spesa dedicata, per venire incontro alle condizioni dettate dall’Alleanza Atlantica.

Il ministro Elisabetta Trenta, invece, forte dell’idea del Movimento 5 Stelle di ridurre la spesa militare, obiettivo già più volte riproposto prima delle elezioni, ha cercato di aggirare l’obbligo, deciso dagli stati della NATO, di investire il 2% del PIL nell’ambito della difesa, insistendo per esempio sulla possibilità di includere le spese sulla cybersicurezza nel totale.

Tuttavia, questo tentativo è stato bocciato sul nascere proprio dalla NATO, per vari motivi: in primis, il fatto che cybersicurezza e cyberdifesa non sono la stessa cosa, e quindi investire sulla prima non sarebbe lo stesso tipo di spesa, in quanto includerebbe ambiti differenti. Inoltre, la sicurezza cibernetica, per quanto sia curata anche dalla difesa, rimane comunque un impegno civile e condiviso tra i vari ministeri.

Ancora una volta, dunque, l’Italia si ritrova in una situazione di stallo, con un governo diviso tra il tentativo di mantenere le promesse fatte all’elettorato e le imposizioni diplomatiche ed economiche provenienti sia dalla situazione economica interna che dai rapporti diplomatici esteri; un delicatissimo e rischioso equilibrio di scelte che ci lascia in attesa di risposte.


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