L’uomo forte vince ancora: Narendra Modi resta alla guida dell’India

Di Maddalena Tomassini – Un totale di 303 seggi ottenuti, 21 in più rispetto alla precedente legislazione. Narendra Modi e il suo partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (Bjp), hanno sbaragliato la concorrenza. Bruciante la sconfitta del principale partito d’opposizione, l’Indian National Congres, che porta a casa solo 52 seggi.

Le elezioni sono iniziate l’11 aprile. Parliamo di cifre impressionanti: 900 milioni di elettori, migliaia di seggi e candidati e oltre 500 partiti. È la più grande tornata elettorale al mondo, e decide la composizione della camera bassa indiana, Lok Sabha, composta da 542 seggi.

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Ma chi è Narendra Modi, e come è arrivato a occupare la posizione di guida del secondo Paese più popoloso al mondo? Classe 1950, Modi incarna perfettamente la figura dell’uomo forte al potere. Il 14 febbraio di quest’anno, 40 militari indiani sono morti in un attentato consumato da alcuni militanti pakistani nel territorio conteso del Kashmir. La risposta non si è fatta attendere: il 26 febbraio l’aviazione indiana bombarda un centro d’addestramento di un gruppo fondamentalista pakistano, rivendicando l’uccisione di 350 militanti. I timori di una possibile guerra con il vicino Pakistan accrescono la “forza” della figura di Modi.

Modi ha fatto di queste elezioni un referendum su se stesso. Una scommessa vinta: neanche la situazione economica indiana – la cui crescita è rallentata, con una produzione industriale in caduta libera e il livello più alto di disoccupazione dal 1970 – sembra aver scosso la sua popolarità.

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Cosa succede ora? In prima luogo, Modi dovrà creare posti di lavoro, in vista dei milioni di giovani che entreranno nel mercato del lavoro nei prossimi mesi. Molte altre questioni restano inoltre aperte, come la radicata e antica problematica delle “caste”. Lo stesso neo-eletto ne ha parlato celebrando la sua vittoria, dichiarando che d’ora in avanti esistono solo due caste: «I poveri e quelli che vogliono lavorare per tirarli fuori dalla povertà».

In realtà, in India la parola “casta” ha un’accezione ben specifica, e stratifica la popolazione, condannando i “fuori casta” – dalit, gli “intoccabili” – a condizioni di vita disumane e lavori degradanti nelle fogne indiane.

Qualcuno preoccupato c’è, e non senza ragione. Le minoranze religiose scontano il prezzo del nazionalismo indù del BJP, diventato corrente predominante in questi ultimi cinque anni. La comunità cristiana indiana è sottoposta a continue vessazioni su più fronti: sono continue le aggressioni fisiche, gli atti di vandalismo contro le chiese, e in molti (in particolare i pastori protestanti) sono fermati con l’accusa di “conversioni forzate”.

Decine di musulmani sono stati linciati dai “protettori delle vacche”, gruppo radicale indù che punisce chiunque sia sorpreso a vendere la carne dell’animale sacro per l’induismo, nonostante in alcuni Stati dell’India la vendita sia legale. Secondo un rapporto di febbraio di Human Rights Watch, fra il maggio 2015 e il dicembre 2018 i radicali indù hanno ucciso 44 persone, fra cui 36 musulmani.

Ultima (ma non ultima) questione particolarmente spinosa in India è quella femminile. Che le donne siano oggetto di discriminazione nel subcontinente indiano è risaputo: stupri, femminicidi, aborti selettivi, e la lista continua. Considerando che metà degli aventi diritto al voto erano donne, non stupisce che tutti i partiti abbiano trattato il problema nei propri manifesti elettorali. Stando ai dati di venerdì, il numero delle donne in parlamento dovrebbe salire al 14% (due punti percentuali in più rispetto alla scorsa legislazione). Se questo comporterà un reale cambiamento – considerando che l’induismo è molto restrittivo nei confronti delle donne – sarà da vedere.


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