L’Europa resiste?

Di Francesco Puleo – Le elezioni europee sono alle porte: tra il 23 e il 26 maggio, i cittadini dei 28 paesi membri dell’Unione Europea saranno chiamati a scegliere i loro rappresentanti al Parlamento europeo, unico organo democraticamente eletto all’interno dell’Unione. Il primo paese a votare sarà il Regno Unito, che dopo tre anni di negoziati sulla Brexit non è ancora riuscito a decidere se, come e quando uscire dall’Europa. A chiudere le operazioni di voto sarà l’Italia: la chiusura dei seggi è prevista per le 23 di domenica prossima.

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Le regole sono semplici e più o meno uguali in tutti gli stati membri: si vota con un sistema proporzionale, con soglie di sbarramento che oscillano tra il 3 e il 5 %. Ogni paese elegge un numero di deputati proporzionale al numero di abitanti. E al netto delle regole e delle procedure interne al Parlamento, ciascun partito rientra all’interno di uno dei suoi gruppi politici: dai popolari (EPP) ai socialisti (PSE), dai verdi ai conservatori euroscettici (ECR), dai liberali (ALDE) alla sinistra radicale (GUE/NGL) fino al gruppo dei “sovranisti” (ENF), ribattezzato “Alleanza Europea dei Popoli e delle Nazioni” (EAPN) dopo che Matteo Salvini ne ha assunto la leadership.

Durante la campagna elettorale, come da tradizione, abbiamo assistito a tutto tranne che ad un confronto serio e ragionato sui programmi. Fatta eccezione per due dibattiti tra i candidati alla presidenza della Commissione europea, che si sono tenuti rispettivamente a fine Aprile e la settimana scorsa, la dimensione propriamente comunitaria ed europea della competizione elettorale ha lasciato spazio alle dinamiche delle politiche interne dei singoli paesi. La narrazione ufficiale è stata quella dello scontro finale tra europeisti e sovranisti, tra più Europa e meno Europa, tra l’asse franco-tedesco di Macron e Merkel e quello euroscettico di Salvini, Le Pen e Orban.

Non a caso, il tema centrale della campagna elettorale è stato quello dell’immigrazione. Al secondo posto, la grande questione del cambiamento climatico, che negli ultimi mesi ha conquistato il centro del dibattito anche in seguito all’esplosione del movimento dei Fridays for Future ispirato dalla giovane attivista svedese Greta Thunberg.

Tuttavia, al di là della narrazione ufficiale, i sondaggi suggeriscono che l’Europa sia tutt’altro che sull’orlo del baratro. I numeri parlano chiaro: sebbene i due grandi gruppi politici sui quali finora si è fondato il governo dell’Unione europea (ovvero popolari e socialisti) perderanno sicuramente una fetta significativa dei loro seggi, l’ipotesi di una maggioranza a guida sovranista è da escludere. I seggi sono 751; in caso di Brexit, saranno ridotti a 705. Nei due casi, per ottenere la maggioranza ne occorreranno rispettivamente 376 e 353.

In base ad un sondaggio di Politico, ad una coalizione tra centrodestra (EPP e ECR) e destra radicale (EAPN) mancherebbero tra 30 e più di 50 seggi per ottenere una maggioranza. Altrettanto difficile è l’ipotesi di un’alleanza di centrosinistra che comprenda socialisti (PSE), liberali (ALDE) verdi e sinistra radicale. A conti fatti (e al netto dell’inaffidabilità dei sondaggi), lo scenario più realistico è quello di una coalizione “europeista” tra popolari, socialisti e liberali, che insieme dovrebbero superare i 400 seggi: in altre parole, la conservazione dello status quo.

Di riflesso, anche al livello della Commissione europea è difficile che cambi granché. Il presidente della Commissione è infatti proposto dal Consiglio europeo sulla base del risultato delle elezioni ma per essere eletto deve ottenere l’approvazione sia del Consiglio che del Parlamento. E come sappiamo il Consiglio è composto dai capi di stato o di governo degli stati membri, che al momento sono in maggioranza guidati da esponenti politici legati ai popolari o ai liberali.

I 28 commissari, inoltre, sono proposti da ciascuno dei 28 stati membri e l’intera Commissione (presidente e commissari) deve essere approvata sia dal Consiglio che dal Parlamento. È difficile dunque che venga eletta una Commissione europea sovranista. Per quanto riguarda le nomine alla Banca Centrale Europea, le previsioni sono più complicate ma anche in quel caso è difficile che il futuro presidente non esprima il consenso interno al  Consiglio europeo e il suo indirizzo politico.

A tutto questo vanno aggiunte due considerazioni. La prima è che lo scenario di un’alleanza tra popolari e sovranisti ha iniziato a dare segni di cedimento: basti pensare al caso dell’Austria, dove il governo di coalizione tra centrodestra e destra radicale è caduto in seguito ad uno scandalo che ha coinvolto proprio il vice cancelliere di estrema destra Heinz-Christian Strache, inchiodato da un video pubblicato pochi giorni fa che lo ritrae intento a discutere di finanziamenti illeciti e appalti insieme alla nipote di un oligarca russo vicino a Vladimir Putin.

La seconda è che le contraddizioni interne a un’ipotetica internazionale sovranista sono troppe: tenere insieme i nazionalisti tedeschi e finlandesi favorevoli all’austerità, i sovranisti italiani e francesi contrari al Fiscal compact e pro-Putin e gli ultracattolici anti-russi dell’est è tutt’altro che semplice. Matteo Salvini lo sa bene: basti pensare che al raduno di sabato a Milano, lo slogan “Prima l’Italia! Il buonsenso in Europa” è stato tradotto in inglese con “Towards a common sense”, ovvero “In direzione del buonsenso”. Se il futuro non è scritto, di sicuro è tradotto male.