Il silenzio dei sopravvissuti

Di Sofia Calderone – Lo scorso mese abbiamo avuto l’onore di ospitare a Palermo, al Centro Sperimentale di Cinematografia, Joshua Opphenaimer, il documentarista più geniale del XXI secolo, al quale è stato consegnato il diploma honoris causa in cinema documentario e di cui abbiamo già parlato in merito al capolavoro The Act of Killing.

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Oggi parliamo del “sequel”, il documentario The Look of Silence, dove Opphenaimer mette in atto un incredibile capovolgimento di prospettiva. Siamo sempre in Indonesia e si continua ad investigare sui massacri compiuti nel 1965 dai generali dell’esercito ai danni dei comunisti e dei dissidenti indonesiani. Questi eventi cruenti erano già stati narrati in The Act of Killing dal punto di vista dei carnefici, i Pancasila. Quel che muta in The Look of Silence è il protagonista: la voce della vittima, il suo sguardo straziante, avvolto nel silenzio, capace di narrare più di mille parole.

Ancora una volta Opphenaimer trasforma il soggetto del documentario in parte essenziale del film, affidandogli il ruolo di intervistatore. Se in The Act of Killing il carnefice diventa regista, qui la vittima diventa il giornalista, Adi, che indaga sull’assassinio del fratello. Si passa dal documentare l’atto di “uccidere”, interpretato dagli assassini stessi, a quello del “guardare”, in silenzio, per mezzo degli occhi dei sopravvissuti.

In The Look of Silence lo “sguardo” delle persone che hanno vissuto il terrore si erge a vero protagonista del documentario. Le scene in cui il silenzio domina sulle parole, in cui le espressioni del viso e il linguaggio non verbale narrano lo strazio vissuto dai sopravvissuti: ecco che in queste scene si vive, rabbrividendo, il dolore provato dai familiari e la crudeltà perpetrata dagli assassini, tutt’oggi impuniti. Sono silenzi che danno spazio esclusivamente a ciò che lo specchio dell’anima, l’occhio, riesce a comunicare: rassegnazione, sofferenza, incomprensione, impotenza, desiderio di vendetta, follia.

Lo sguardo del silenzio è quello di chi ha visto talmente tante atrocità nella sua vita da non riuscire più a vivere. È lo sguardo degli oppressi, inermi, sofferenti e silenti di fronte al racconto dei capi delle squadre della morte, che descrivono, gloriosi e divertiti, il modo in cui sterminarono i loro conterranei.

Cosa era successo? Come si legge nelle prime scene del documentario: «Nel 1965 il governo indonesiano è stato rovesciato dall’esercito. Chiunque si opponesse al regime militare poteva essere accusato di essere comunista: sindacalisti, agricoltori senza terra e intellettuali. In meno di un anno sono stati assassinati un milione di comunisti e i colpevoli detengono ancora il potere in tutto il paese».

Quando Adi intervista il capo della squadra della morte, responsabile dell’omicidio di suo fratello, si sente dire: «abbiamo sterminato comunisti per tre mesi, giorno e notte. Allo Snake River abbiamo scavato una fossa e ce li abbiamo seppelliti vivi. […] Questa è una faccenda di importanza internazionale. Dovrebbero farci un regalo […] tipo una crociera».

Perché si è arrivati al genocidio? Controverso. I carnefici giustificano il loro sterminio in nome di Dio, dal momento che i comunisti “si diceva” fossero atei. Occorre sottolineare che, allora come oggi, l’Indonesia è il più grande paese musulmano al mondo per numero di credenti (87,2% sul totale della popolazione). Tant’è che il movente dell’ateismo viene smentito dalle testimonianze di chi, come Kemat – uno dei sopravvissuti al massacro dello Snake River, che si salvò saltando giù dal camion diretto verso la morte – crede profondamente in Dio. Kemat afferma che non ha mai pensato di vendicarsi, perché è compito di Allah, e alla domanda su che cosa prova quando ricorda quei momenti, risponde: «Il passato è passato. L’ho accettato […] Tutto stato seppellito. Perché scavare?». Piuttosto, la vera ragione che sta dietro al genocidio la dice apertamente il generale delle squadre della morte: «L’abbiamo fatto perché l’America ci ha insegnato a odiare i comunisti»Tuttavia, è la prima versione, quella dell’ateismo che continua a prevalere tutt’oggi, quella che si insegna a scuola.

Che cos’è, in concreto, questo look of silence? È lo sguardo struggente di Adi, l’intervistatore, che, non a caso, di mestiere fa l’oculista. Lui è fratello di Ramli, giovane comunista che nel 1963 fu pugnalato a colpi di accetta, sventrato, legato, castrato e gettato nel fiume. In televisione osserva i vertici degli squadroni della morte descrivere il modo in cui assassinarono il fratello. Si badi bene, questi vertici dell’esercito tutt’oggi sono a capo del governo e del parlamento indonesiano, impuniti dalle corti di giustizia internazionale, indisturbati dal popolo, solo in pochi pentiti di quanto hanno compiuto in passato. È il silenzio della madre di Ramli che, con lo sguardo perso nel vuoto, pensa sempre al giorno in cui le strapparono il figlio dalle braccia, dopo che era riuscito a fuggire dai suoi assassini – con l’intestino che fuoriusciva dalla pancia – per correre da lei. Tuttavia, gli squadroni della morte lo andarono a ripescare in casa, strappandolo dal grembo materno “per portarlo in ospedale”. Mentivano.

The Look of Silence è lo sguardo innocente del nipote di Ramli, che a scuola ascolta la lezione di storia del maestro, vale a dire la versione dello Stato (quindi dei carnefici) e non riesce a capire. Non comprende perché in casa sua ha sempre sentito la versione data dai suoi familiari, quella dei sopravvissuti al genocidio, secondo la quale era stato l’esercito a rovesciare il governo indonesiano uccidendo i quattro generali. Al contrario, il maestro insegnava ai suoi alunni che i colpevoli, gli assassini dei quattro generali erano i comunisti. «I comunisti sono crudeli, perciò il governo ha dovuto reprimerli. I comunisti non credono in Dio. I figli o i nipoti dei comunisti non possono lavorare per lo Stato». Ma non solo. Lo sguardo del silenzio è anche quello del carnefice che, dopo aver raccontato con sadica fierezza il pre-assassinio, il modo in cui veniva implorato dalle vittime comuniste – le quali urlavano pietà pur di essere risparmiate – e poi, minuziosamente, l’assassinio, ecco che, solo alla fine, ammette di aver bevuto del sangue umano per non diventare pazzo come i suoi colleghi.

Il silenzio in cui finisce per avvolgersi deriva dal logoramento interiore che persino il più infimo e spietato essere umano, come era lui, arriva a provare dopo aver condotto uno sterminio. Non c’è strada da percorrere di fronte alle conseguenze di un genocidio rimasto ancora impunito. Non c’è pace nel cuore di chi ingiustamente si è visto strappare i propri cari per mano di coloro che continuano a detenere il potere politico e legislativo. L’unica saggia soluzione la dà Oppenhaimer: «Dobbiamo fermarci, riconoscere le vite distrutte, sforzarci di ascoltare il silenzio che le accompagna».