Mena Mangal non si è fermata

Di Maddalena Tomassini – «Ma io non mi fermo». È il 3 maggio 2019 quando Mena Mangal, afghana, giornalista e attivista per i diritti delle donne, respinge con un post su Facebook le minacce di morte: vuole continuare a combattere per il suo Paese, per le bambine che ci vivono, perché non siano trascinate in un matrimonio forzato, costruito sull’abuso. A fermare il suo cuore, otto giorni dopo, saranno dei proiettili. Mena muore sulla soglia di casa in pieno giorno, riversa in una pozza di sangue.

Le forze dell’ordine hanno annunciato indagini. Le piste sono due – l’ex-marito o i terroristi islamici – con un comune denominatore: l’idea che la donna sia un dominio a uso e consumo dei desideri degli uomini.

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Mena, morta a 27 anni, a 14 viene promessa a un uomo che non ama, come è costume nel Paese. Un fidanzamento che si protrae per 10 anni. I genitori della ragazza si sono resi conto che il futuro sposo è violento, cercano di disdire l’accordo, ma – come Mena stessa – sono costretti a cedere alle minacce della famiglia di lui. L’uomo promette che non si opporrà a lasciar lavorare la moglie, ma mente.

Si sposano nel 2017. Non passa che una settimana dalle nozze, che la famiglia dello sposo rapisce Mena e la tortura. Da lì, inizia il faticoso percorso legale per ottenere il divorzio, in un Paese dove la parola divorzio stessa è un tabù. Le viene accordato all’inizio di questo mese. Ora, la famiglia di Mena chiede giustizia.

La storia di Mena non è un caso isolato. Tutt’altro, è il simbolo della resilienza e del dolore delle donne afghane. L’orrore del dominio talebano, fra il 1996 e il 2001: niente istruzione, divieto a uscire di casa, obbligo a portare il velo integrale. Dopo il 2001, arrivano le prime sofferte conquiste. Visi femminili cominciano ad apparire sugli schermi afghani. Fra questi, il volto di Mena.

Tuttavia, la presenza talebana proietta ancora una lunga ombra sulla società, soprattutto nelle zone rurali, dove il “pensiero talebano” è ben radicato. Più della metà delle bambine afghane in età scolastica non siede su un banco. Due su tre si sposano giovani, per lo più in matrimoni combinati. In base al Women, Peace, and Security Index del 2018 l’Afghanistan è il secondo Paese peggiore in cui vivere se si è donna, appena dopo la Siria. Negli ultimi mesi molte donne hanno rinunciato al loro lavoro per salvarsi la vita.

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Quelle ottenute in 18 anni sono conquiste monche e fragili, che potrebbero essere spazzate via in poco tempo. Le donne, le attiviste, seguono con apprensione i dialoghi di pace in corso con la Casa Bianca. È chiaro che i talebani chiederanno posizioni di potere. Poco rassicura che abbiano dichiarato di voler rinunciare alle politiche restrittive contro l’istruzione e il lavoro femminile – in particolare se, nel contempo, emergono storie di donne fustigate perché non abbigliate in modo appropriato, o perché scoperte ad ascoltare musica.

Mena Mangal si batteva per cambiare le cose, consapevole che nessuno è al sicuro in Afghanistan. Il governo e le forze dell’ordine, piagati da una corruzione cronica e diffusa, non sono capaci di proteggere nessuno, men che meno chi non ha intenzione di tapparsi la bocca. La libertà è nel mirino dei talebani e non solo – alla contesa partecipano anche i guerriglieri dello Stato Islamico, responsabili di diversi attentati, come quello del 30 aprile 2018. Una bomba esplode a Kabul. Un gruppo di reporter si dirige sulla scena, inconsapevole di essere caduto in trappola. Un terrorista, vestito da fotografo, si fa saltare in aria in mezzo a loro. Muoiono in nove.

Mena sapeva bene che in Afghanistan è pericoloso essere donna, giornalista o attivista, eppure era tutte e tre. E no, non si è fermata, e la sua voce non è ancora caduta nel silenzio, nonostante la stampa locale si sia limitata a riportare la sua morte. La voce di Mena è in quella di tutte le donne afghane che, come lei, non hanno intenzione di tornare nel silenzio. Sta a noi, invece, fermarci ad ascoltarle.