Venti giorni di buio rischiarato da piccoli soli

Di Francesco Paolo Marco Leti – Chi scrive non è mai stato bravo con articoli di tipo introspettivo o basati su testimonianze, mi trovo molto più a mio agio con articoli di natura tecnica su politica o economia. In questo caso farò un’eccezione, non per raccontare quello che mi è accaduto, ma per rendere i giusti meriti alle persone eccezionali che mi hanno aiutato.

Ho sempre avuto una profonda fiducia nelle persone, non mi nascondo che siano possibili fonti di male assoluto, ma ho sempre preferito pensare che siano la possibile origine di ogni bene della società: l’uomo nella sua generosità e nella sua umanità è il perno della reale solidarietà sociale.

All’inizio del mese di marzo ho avuto un forte malore, una cosa abbastanza grave, ho rischiato di morire. Come chiunque, mi sono recato, dopo la crisi, presso un pronto soccorso, in questo caso il pronto soccorso del Policlinico Paolo Giaccone di Palermo. Il caso, o forse la volontà di mio padre, ha voluto che mi recassi lì, ad ogni modo, dopo la classica anticamera al pronto soccorso, mi sono ritrovato nel reparto di terapia intensiva.

Già da quella prima sera cominciavano le sorprese per me: invece di trovare un freddo e professionale personale medico, mi sono trovato davanti dei ragazzi, delle persone, contemporaneamente medici, preoccupati, che cercavano di tranquillizzarmi, di spiegarmi, di sostenermi. Dopo aver fatto la diagnosi e iniziato la terapia per risolvere il mio problema, hanno provveduto a “sistemarmi” nel reparto, dandomi un letto e cominciando i controlli approfonditi. In sintesi, ero “sistemato” nella metà mattinata successiva e, con mia profonda sorpresa, qualcuno dei medici che mi aveva accolto la notte e che avrebbe dovuto smontare dal lavoro la mattina aveva atteso e controllato che fossi sistemato e a mio agio prima di andare a prendersi il meritato riposo, ovviamente non prima di avermi salutato calorosamente, sostenuto e rassicurato.

Nel primo giorno di ricovero le mie condizioni cliniche erano abbastanza stabili, purtroppo queste condizioni sono peggiorate rapidamente e, nell’arco di due giorni, mi sono trovato piantato in un letto fra flebo e ossigeno, senza alcuna possibilità di deambulazione e con scarsa autonomia complessiva. Ero completamente dipendente dal personale sanitario. Per un ragazzo di 35 anni che è sempre stato in buona salute, e ha sempre agito in totale autonomia, questa condizione risulta essere in parte umiliante, in parte deprimente. Non potere allontanarsi dal letto per espletare i propri bisogni trovandosi con un pannolone addosso, dovere usare il “pappagallo” per urinare, essere costretto a chiedere aiuto per mangiare, arrivare a essere imboccato, essere lavato, non è esattamente la prospettiva migliore per una degenza.

Le mie precarie condizioni mi hanno portato a stretto contatto col personale infermieristico, la cui umanità, non solo mi ha sorpreso, ma mi ha anche commosso. Alcuni infermieri hanno mostrato un’umanità paterna; molti hanno cercato di distrarmi con discussioni infinite su partite di calcio, chiacchierando sulle mie materie di studio, chiedendomi della mia famiglia, complimentandosi sul mio buon gusto per la mia ragazza; qualche infermiera mi dava improbabili appuntamenti notturni per prelievi richiedendo che mi presentassi vestito elegantemente e, quando mi trovava col classico pigiama ospedaliero, mi chiedeva se fosse una tenuta adeguata per un appuntamento con una signora. Tutti mi hanno aiutato: qualcuno, la prima volta che mi alzavo dal letto dopo quattordici giorni, mi ha sorretto mentre facevo un giro del reparto e potevo leggere la sua soddisfazione (e il suo sollievo) negli occhi quando ho iniziato a camminare da solo.

Anche i medici mi hanno commosso, riuscivo a capire le mie condizioni non sicuramente dalle parole esoteriche che si scambiavano, ma dai loro occhi: le rughe che si increspavano negli angoli, la preoccupazione materna di alcune dottoresse, e, nei momenti peggiori, gli occhi che diventavano lucidi guardandomi. Mai però, qualcuno ha sfuggito il mio sguardo: stavano facendo del loro meglio e non avevano nulla da nascondere. Per la mia condizione era necessario fare diversi prelievi arteriosi durante la giornata, questo comportava la presenza di diversi medici che si affaccendavano intorno ai miei polsi nel tentativo di arrecarmi il minor dolore possibile (posso dire che qualcuno era un mago dei prelievi radiali, del tutto indolori), in alcuni momenti sembrava volessero scusarsi per quello che dovevano fare, spesso si scusavano realmente a prelievo fatto. Per questo li ringraziavo ogni volta che si davano da fare per me. Quando, verso la fine del mio ricovero, cominciavo a migliorare sempre più rapidamente vedevo un sollievo sempre più palpabile e anche una riduzione delle attenzioni, dirottate, giustamente, verso i degenti più gravi.

Quello che voglio sottolineare, con quanto ho scritto, è che il personale presente nel reparto della mia degenza è stato eccezionale, una reale colonna portante del Servizio Sanitario, che onora col proprio lavoro, la propria professionalità e, soprattutto, con la propria umanità. Una missione più che un lavoro. Di tutto questo e di quello che avete fatto per me io vi sono profondamente grato.