Ogni vita conta. Ma quale?

Di Gaia Garofalo – Lucìa ha 5 lettere e 11 anni. Il nome è fittizio giusto per proteggere l’anonimato della bambina, giusto per proteggere almeno qualcosa di questa creatura. Ma il resto no, non ha avuto alcuna cura e nessuna accortezza. Come si dà il nome a queste cose? Come lo direbbe una bambina?

Lucìa le avrà tenute dentro gli occhi queste parole, avrà sperato che qualcuno insieme a lei, quelle parole come macigni, li avrebbe raccolti e messi su quella mongolfiera dell’infanzia, per tornare giù, sulla terra ferma, dove bambini non si è più. Senza però altri giri di parole: in Argentina, Lucìa, è stata stuprata e continua ad avere 11 anni e un figlio.

Un seme proveniente da un terribile orco, il compagno della nonna a cui era stata affidata nel 2015, dopo che invece le due sorelle maggiori erano state abusate dal compagno della madre. La vita non ha lasciato scampo a nessuna di loro.

Ha provato a uccidersi, Lucìa, 11 anni. Nonostante le leggi già restrittive di aborto, lei avrebbe potuto salvarsi in quanto la sua situazione, legalmente, lo richiedeva. Tucumán però è una delle province dell’Argentina che non aderisce al protocollo ILE: Interrupción Legal del Embarazo, anzi si è dichiarata provincia a favore della vita. Non ha nemmeno mai aderito al Programma nazionale per la salute sessuale e la procreazione responsabile e, sempre che questo non sia già abbastanza, lo scorso novembre un legislatore locale ha provato a introdurre un disegno di legge per vietare l’aborto anche in caso di stupro.

abortoSecondo quanto dichiarato dall’avvocata della famiglia: «Invece di applicare il protocollo ILE si sono dedicati a romanzare la maternità. Le hanno mostrato l’ecografia, le hanno accarezzato la pancia, le hanno parlato di cosa significasse essere una madre, anche se lei non voleva esserlo».

Cecilia Ousset, la dottoressa che ha eseguito il parto cesareo insieme al marito, ha dichiarato e accusato: «Per ragioni elettorali le autorità hanno impedito l’interruzione legale della gravidanza e hanno costretto la bambina a partorire. Le mie gambe tremavano quando la vedevo, era come vedere mia figlia più piccola. La bambina non ha capito affatto cosa stava per succedere».

Le donne del movimento femminista argentino Ni Una Menos, che ha guidato la niuna2campagna per la legalizzazione dell’aborto nel paese, hanno squarciato il silenzio di questo perbenismo urlando che «lo Stato è responsabile della tortura di Lucía». Una tortura che durerà per il resto della sua vita e non di chi ha deciso per lei. Infine, non è stata nemmeno ascoltata quando Lucìa ha confidato allo psicologo «Voglio che togliate quello che quell’uomo ha messo dentro di me».

Nonostante ciò, Gustavo Vigliocco, segretario sanitario di Tucumàn, rinnega in radio dicendo che no, non c’è stata alcuna dichiarazione di aborto da parte della bambina e della madre. Gustavo Vigliocco va anche oltre gli atti giudiziari in cui invece la firma era ben chiara: il caso è rimasto bloccato tra tribunali, sistema sanitario e governo locale, ognuno con una propria versione della storia. Lui si permette anche di dichiarare che Lucìa potesse benissimo affrontare la gravidanza perché più di 50 kg, sì, un’incubatrice di 50 kg.

Di quale onore si va a parlare in giro? Quale facciata c’è da conservare? Di cosa si ha paura, quindi? Dell’inferno? O di Dio? Perché non esiste niente di peggio di questo e il diavolo non può che essere nei cuori di chi non guarda il pancione disperato di una bambina di 11 anni, ma volge lo sguardo solo alle proprie preghiere fittizie, al proprio posto caldo in paradiso, a ogni vita che conta, ma quale?