Vittime due volte, colpevoli mai

Di Clara Geraci – Ai soldatini del Daesh le belve di al–Baghdadi vendono terrore e convinzioni allucinate. Controllano le scuole, ideologizzano l’educazione, stravolgono le menti. Fino a cancellare ogni libero pensiero, fino a ripulire le coscienze del senso dell’umano.

«Mio fratello aveva solo 8 anni quando sono arrivati i miliziani dell’Isis. Un giorno è tornato a casa dicendo che i nuovi insegnanti avevano portato un nuovo libro di matematica. Insegnavano le addizioni sommando le bombe e i proiettili. Il giorno dopo il figlio di un miliziano iracheno dell’Isis è entrato in classe con un coltello per insegnare agli altri bambini come sgozzare un “infedele”» – ricorda Marwa, 16anni.

È l’orrore che diventa spettacolo, la ferocia che diventa abitudine. Il piccolo esercito del Califfo non deve conoscere senso del ribrezzo né della paura, per questo è addestrato al dolore, alle armi, alla violenza: «ho visto persone torturate, appese per le braccia per 40 giorni. Uno fu crocifisso a testa in giù, per le gambe. Quello che ho visto in prigione poi.. ho visto come torturavano la gente in modo spietato, senza limiti, e bambini piccoli giocare con teste mozzate. Queste scene ci hanno reso crudeli» – rivela Ibrahim, giovane siriano attirato dalla propaganda che era appena 13enne e fatto prigioniero per essersi ravveduto e aver rinunciato alla missione suicida per la quale era stato convinto ad offrirsi volontario.

Children-with-weapons

Da una raccolta di immagini postate online da militanti islamisti

Decine pare siano i campi dedicati a militarizzare i minori. Per esempio, al’Sharea’l Camp for Kids sarebbe riservato ai soldati tra i 5 e i 16 anni, secondo gli attivisti di Raqqa is being slaughtered: «gli istruttori ci sparavano dietro mentre correvamo, e ci dicevano che se ci fossimo fermati ci avrebbero ucciso» – racconta Yasir, 15enne vissuto con un giubbotto esplosivo addosso e un kalashnikov tra le mani quando faceva da sentinella per una base Isis a Deir Ezzor, in Siria – «sono stato molto attento a non smettere di correre, non mi sono fermato, anche se ero esausto, senza fiato, non mi sono fermato».

wpid-screenshot_2015-07-04-18-50-351Tra scimitarre e Corano, tra corsi di combattimento e integralismo, «si allenano i bambini alla più fiera crudeltà (l’australiano Khaled Sharrouf ha postato su Facebook la foto di suo figlio piccolo che solleva una testa mozzata) e alla più accesa competizione: diventare un “cucciolo di leone” è un privilegio da conquistare con gli artigli, perché solo i migliori sono scelti per uccidere ed essere esibiti in video “promozionali”» – chiarisce la dottoressa Bloom ricordando il video dell’esecuzione di Palmira, che fece il giro del web mostrando 25 ragazzini a volto scoperto freddare a revolverate altrettanti prigionieri inginocchiati davanti a loro – «Invece i ragazzini meno portati per il sangue hanno incarichi collaterali nell’ideologia del terrore: chi dà meno nell’occhio diventa spia e delatore; chi è più comunicativo fa propaganda».

I “Cuccioli del Califfato” – Ashbal al-khilafah, così li chiamano – sono migliaia di vite in frantumi, germogliate nell’odio e cresciute nell’orrore, che il mondo finge non esistano. Eppure sono tante, tantissime, le prove di tanta barbarie: ci sono le testimonianze degli attivisti sul campo, le parole dei sopravvissuti, e i raccapriccianti video delle stragi compiute da bambini che lo stesso Daesh manda sul web con orrido vanto. Il mondo sa, eppure resta a guardare mentre il più vigliacco dei crimini di guerra – lo Statuto della Corte Penale Internazionale riconosce come tale l’arruolamento e il coinvolgimento attivo di minori nei conflitti armati – si consuma quotidianamente, devastando l’innocenza e avvelenando l’umanità.

Nonostante il diritto internazionale li riconosca come vittime ed imponga agli Stati di agevolarne il recupero psicofisico e il reinserimento sociale, la tragica sorte dei combattenti bambini sembra non interessare a nessuno: non esistono.

Non esistono quei 1500, di cui 185 stranieri, imprigionati e torturati nelle carceri curde e irachene, senza diritti e senza dignità, accusati di aver fatto parte dell’esercito dello Stato Islamico e incriminati per terrorismo a seguito di processi lampo, di cui parla il rapporto Everyone Must Confess di Human Rights Watch.

Non esistono quegli oltre 3mila nati sotto il Daesh da foreign figthers, intrappolati senza patria, senza accusa e senza via d’uscita tra i campi del nord-est della Siria, sovraffollati e troppo spesso letali – almeno 75 bambini di neanche 5 anni sono morti da dicembre ad oggi al campo di Al-Hol, riporta Save the Children –, in attesa che i loro paesi di origine si decidano a riconoscerli e, forse, a riportarli a casa e alla vita.

Adesso che anche Baghuz – l’ultima roccaforte dello Stato Islamico della Siria e del Levante – è caduta, il dramma dei terroristi bambini resta: «Cosa possiamo fare adesso di questa generazione di bambini cresciuti nel mito della guerra santa? Dove li mettiamo? Come possiamo separarli ancora piccolissimi dalle madri che li educano tutt’ora a suon di slogan della vendetta in nome del Califfato?» – chiede Nesrin Abdullah, portavoce delle unità combattenti curde femminili – «Per noi è come vedere crescere un serpente nel ventre di una madre. [..] Ci sono almeno 2 mila bambini che erano stati preparati per immolarsi da kamikaze. Figli di tunisini, ceceni, francesi, turchi e anche italiani».

Migliaia di bambini senza nome e senza patria, con radici insanguinate e un futuro incerto, sembrano destinati a perdersi: nessuno sembra volersene occupare, eppure esistono. Hanno cicatrici profonde, coscienze sfregiate e sguardi smarriti. Sono vite sospese, che fanno paura e che hanno paura. Sono bambini, come i nostri. E hanno diritto ad una vita normale: protezione, scuola, cure, leggerezza, opportunità. Hanno il diritto di rinascere.

Il Daesh forse è sconfitto. Eppure, se permetteremo che quei bambini trascinati nelle voragini del male vi restino ingabbiati, vittime un’altra volta delle sconsiderate scelte dei grandi, a perdere saremo noi.