Green Book, senza etichette

Di Gaia Garofalo – New York è una città così grande che ogni spazietto stretto, tra un grattacielo e l’altro, nasconde una storia. Quella di Green Book striscia dai bassi fondi del Bronx agli alti piani di Manhattan, ed è tutto vero. Racconta del pianista geniale afroamericano Donald Walbridge Shirley, in arte Don Shirley, che pretende di affrontare una lunga tournèe concertistica nel profondo Sud degli Stati Uniti. Anni ’60, qui non si scherza. Il suo autista sarà il buttafuori italoamericano Tony Vallelonga, in arte Tony Lip. Qui la sua arte è raggirare le situazioni a modo suo.

Tony è un buzzurro, un rude ma onesto padre di famiglia che fa scoprire il pollo fritto a Don, questo damerino dalla pelle d’ebano che ha paura di sporcarsi la copertina. Nasce un’amicizia, una consapevolezza, una scoperta di un’identità che Don non ha mai avuto e voluto, stretto tra una società accecata dal razzismo e la sua volontà di essere se stesso, lontano dagli stereotipi di cui anche Tony vuole liberarsi, attraversando il paese americano con in mano il The Negro Motorist Green Book, la guida turistica per sola gente di colore con le liste di ristoranti, motel, bar, in cui quelli di colore potevano andare senza un alto rischio di scazzottate xenofobe.

green-bookNel frattempo Don Shirley si presenta ogni giorno nelle case e nei teatri dei grandi ricchi bianchi che ospitano i suoi concerti, gli stessi ricchi bianchi che però non gli permettono di utilizzare il bagno di casa e lo obbligano alla fatiscente latrina in legno scheggiato nel giardino, come i cani o peggio.

E Don rimane nella sua classe, nella sua eleganza, nella sua decisa gentilezza, perché solo così, dice lui, certe cose possono avere un impatto sugli uomini. Don si spaventa delle sue cosiddette origini, non ci si diverte facilmente, lui è ecco, inclassificabile. Anche Tony è un discriminato, è un italoamericano, c’è un altro aggettivo prima della sua effettiva cittadinanza. In questa identità non sempre per forza categorizzabile, ci si trova lì in mezzo, mettendo un posto in più a tavola.

E’ facile scegliere un film da andare a vedere, oggi come oggi. E un film come si sceglie? Un’occhiata al trailer, alla trama su Wikipedia, qualche recensione su YouTube, i commenti della stampa, i premi, gli orari dei cinema in città, con chi andare, lo sconto studenti, etc. Ma adesso si va poco a vedere un film. Lo si scarica, si mette pausa, nel frattempo si fa altro col cellulare in mano, si fa un post su Facebook con scritto “Sto guardando…” , qualche storia su Instagram, ed è fatta, hai archiviato per qualche ora, nella tua superficiale memoria, un’altra serie di immagini potenzialmente interessanti.

Poi ti capita Green Book e non puoi fare sempre la solita solfa, non è nemmeno definibile “interessante”. E’ sconvolgente, è critico, è introspettivo.

Green BookGreen Book è diretto da uno dei fratelli Farrelly, Peter Farrelly, quelli di Scemo & più Scemo, Tutti pazzi per Mary, Lo Spaccacuori; insomma film che non ti aspetti provenire dalla stessa regia. Don Shirley è maestosamente interpretato da Mahershala Ali, ruolo che lo porta al premio come miglior attore non protagonista dei Golden Globe 2019.

Viggo Mortensen poi è un trasformista assurdo, motivo per cui la sua parte merita di essere ascoltata in originale, causa quell’accento perfetto maccheronico che mescola egregiamente pizza e apple pie. Non troppo americanato, non troppo italianizzato. Un linguista perfetto, un antropologo gestuale magnifico. Merita un accenno anche la favolosa auto che accompagna i due in questo road movie. Oltre la cinepresa, l’amicizia tra Don e Lip vive forte fino al 2013, anno in cui entrambi riposano in pace. Lip è anche conosciuto nei suoi anni per alcune parti attoriali non di poco conto: Quei bravi ragazzi, Il Padrino, Toro Scatenato e infine la serie I Sopranos.

Se non volessi consigliarvi questo film, non sarei alle 00:08 a parlarvi di questa idea umana straordinaria qual è il cinema nelle sue sfumature più ricercate. Alcuni vi diranno invece di non andarci, perché magari sarà una perdita di tempo, sarà un altro Quasi Amici o una trita e ritrita pellicola politically correct ambientata nell’epoca delle leggi razziali in America mirata a sensibilizzare le insensibili nuove generazioni. E invece no, Green Book riflette l’identità, che non facciamo altro che spingere, fino all’esasperazione dell’individuo.

Inaspettatamente, senza etichette, scorrono i titoli di coda insieme a qualche lacrimuccia ed il film, è finito. Ma non ciò che ne rimane.


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